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L'abito fa il monaco?
(troppo vecchio per rispondere)
guardrail
2004-11-18 08:39:08 UTC
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La "moda" monastica

Non è sicuro che ci fosse un capitolo sui cappelli in Aristotele; ma è ben
certo che presto o tardi lo storico si imbatte nell'importante problema del
vestito dei religiosi. È questo uno dei capitoli più coloriti e più
complessi della storia della moda anche se, manifestamente, i religiosi
hanno sempre dimostrato la loro volontà di non cedere agli umori cangianti
del secolo, di restare scrupolosamente attaccati ai vestiti che aveva
imposto loro il fondatore, di rispondere alle esigenze di una vita segnata
dall'ideale di povertà, di semplicità e d'austerità, agli imperativi di uno
spirito di corpo molto spinto, marcato dall'uniformi
tà e dalla regolarità.

Ma come vivere nel secolo rendendo manifesta senza stravaganza, la
volontà di viverne se non separato almeno ai margini? Come
non essere del proprio tempo senza sembrare anacronistico?

I problemi relativi all'abbigliamento, alla biancheria, alle calzature, ai
guanti, hanno dunque occupato per secoli lo spirito dei religiosi, come del
resto quello dei militari. Il fatto è che il vestito è sempre carico di un
simbolismo molto ricco. È un segno e una prova di adesione, di solidarietà
contemporaneamente nel tempo e nello spazio. Esso attesta l'unità e di
conseguenza, la forza del gruppo di cui si fa parte.

Ecco, per esempio, quello che dice al proposito la raccolta di Eynsham. Dopo
aver fatto un ritratto di quella che deve essere la vita del monaco «sempre
infiammata dall'amore di Dio» al punto di essere, dice il Cristo,
«l'abitacolo del Regno divino», il testo indica che l'abito e la tonsura
devono senza sosta richiamare al monaco questi obiettivi. «Per questo egli
porterà indumenti poveri e neri, per mostrare che lui stesso si considera un
povero peccatore. Ne sarà coperto dalla testa ai piedi come esortazione a
comportarsi in questo modo dal principio fino alla fine della sua vita.» E
così di seguito.
Un testo di Gilbert Crispin, abate di Wetsminster (morto nel 1119) riassume
molto bene questa funzione dell'abito che deve testimoniare quello che è
l'uomo interiore: «Et qualis homo interior esse debeat semper contestetur».
Prendere l'abito è dunque un atto solenne, poiché attesta la volontà del
monaco di cambiar vita, di assumere ormai l'innocenza e l'umiltà della sua
professione.
Presso i canonici di Marbach il superiore pronuncia una preghiera sull'abito
e invoca lo Spirito Santo perché compia interiormente quello che il
cambiamento d'abito simboleggia.
Nell'ordine dell'Artige per indicare che un monaco è punito, gli si taglia
il suo cappuccio «davanti e dietro (...) come marchio d'infamia». Presso i
cistercensi, il converso colpevole si vede condannato a lavorare in vestiti
civili.
L'abito monastico possiede tante virtù che il solo fatto di aver baciato
l'abito di un frate questuante vale cinque anni di indulgenza e che certi
laici tengono a essere seppelliti nel saio di un monaco. Così il duca di
Borgogna, Filippo l'Ardito, fu interrato con l'abito bianco dei certosini
(1404) che gli servì come sudario. Qualunque fosse stata la vita anteriore
del moribondo - e il Medio Evo è ricco di vite più che avventurose - egli ha
qualche possibilità, così vestito, di acquistare le virtù della penitenza e
dell'umiltà che gli permetteranno - almeno spera - di essere perdonato da
Dio. È quella che si chiama la vestizione Ad succurendum. Con il tempo,
questo costume, diffuso a partire dal IX secolo, si banalizzò. Tutti gli
ordini finirono per accordare questo favore con più o meno facilità. La cosa
si può capire, ma l'abito ne uscì svalutato. È comprensibile che il Medio
Evo, così carico di simbolismo e interamente strutturato in classi sociali,
mestieri e corporazioni nettamente distinte, abbia suscitato presso i
religiosi la ricerca di tutto ciò che poteva sottolineare la loro
appartenenza. Il vestito, proprietà esclusiva di ogni ordine, possiede un
significato essenziale. Da qui le interminabili discussioni che
marcano,secolo dopo secolo, il suo concetto e la sua realizzazione. Tutto è
pretesto per scontri: il colore, il taglio, la lunghezza della tunica,
quella del cappuccio, la cintura, le calzature[...] Ogni riforma si
distingue per qualche novità che si presenta, ben inteso, come un
ritorno alle sorgenti e all'autenticità.
C'è tuttavia un punto sul quale sono tutti d'accordo (almeno in linea di
principio): è l'esigenza di povertà e di semplicità. Quale che sia il tipo
di tessuto - canapa, lana, pelo di capra, pelo di cammello, lino (anche se
il lino è riservato piuttosto al clero secolare, in ricordo del velo di
santa Veronica) - è sempre descritto come rude, irsuto, grossolano, in un
latino che non utilizza certo la litote: vilissima, abjectissi
ma, horrenda.. Il vestito sarà rustico a imitazione di quello dei contadini
e dei pastori: è il caso dei certosini, dei francescani, degli avellaniti.
Questa stessa esigenza di povertà implica anche che non si abbia alcuna
vergogna, anzi il contrario (eccetto i templari che sono monaci-soldati) nel
portare vestiti usati, lisi e rappezzati, di preferenza con stoffe di
tessuto diverso. San Benedetto d'Aniane, per umiltà, metteva pezze di un
altro colore alla sua cocolla, «per attirare - ci dice Hélyot - la derisione
degli altri religiosi che lo insultavano e lo trattavano come un
matto[...]». Possiamo trarne diverse lezioni.
La prima è che il gruppo, qualunque esso sia, e anche se non conta che santi
(cosa ben poco probabile), reagisce sempre di fronte alla devianza.
La seconda è che il senso della gerarchia non era molto acuto in
quell'epoca: «insultare». Benedetto d'Aniane non è cosa da poco.
La terza è che anche i santi possono spingere lontano la loro stranezza. Che
Benedetto d'Aniane in mancanza di meglio abbia variopinto la sua cocolla,
ancora passi. Ma che volontariamente e per mortificarsi si sia comportato
come precursore dei nostri barboni,prova che si può essere un grande uomo e
non sapere fin dove ci si può spingere. Del resto, la Chiesa se le ha
tollerate, non è mai stata favorevole a questo genere di stravaganze. Si
fece ben presto notare che Cristo doveva essere vestito molto bene se i sold
ati si disputarono la tunica senza cuciture che egli vestiva; e che dunque
non c'era ragione di farsi più cattolici del papa.
Altra conseguenza del voto di povertà: la lana non verrà tinta, tingere è
mentire: «Nulla tinctura, nec mendacio defucata». Il capitolo generale dei
cistercensi del 1181, decide di escludere le stoffe tinte e strane (lindi et
curiosi) cioè adatte a suscitare attenzione. È il caso anche degli umiliati,
detti «Berettini della penitenza» e in generale, di tutti coloro che
calcavano l'accento sull'ideale di povertà.
Per forza di cose, risultano notevoli variazioni all'interno dello stesso
ordine. Si pone allora il problema: è meglio porre in evidenza la povertà e
la scarsa cura per gli abiti e rischiare una certa anarchia, o assicurare
non senza qualche spesa l'omogeneità del gruppo? Tutti gli ordini finiranno
per optare per la seconda soluzione.
Un altro problema si pone con il cambiamento di stagioni. Si deve spingere
la mortificazione della carne fino a portare lo stesso vestito d'inverno
come d'estate, andare a piedi nudi, rifiutare la biancheria, o bisogna, per
dovere di discretio, agire saggiamente e tener conto del clima e degli usi
del Paese? E se si adotta la soluzione più ragionevole - non tutti i
religiosi l'hanno fatto e alcuni si sono sottoposti, negli inverni del Nord
a prove incredibili - fino a che punto si può giungere? Si porteranno
pellicce? Guanti? Stivali foderati di pelo? Pietro il Venerabile proibisce
l'uso di pelli d'agnello (agnellini) ai suoi monaci, a eccezione dei
tedeschi e dei religiosi delle regioni «vicine»: ma fino a dove si estende
il vicinato?
Il religioso porterà lo stesso vestito per il lavoro, gli uffici, il sonno,
i santi, i viaggi? Esigenze così diverse imporranno presto soluzioni
d'abbigliamento adatte alle circostanze. L'ingegnosità dei religiosi vi
pervenne con facilità. Nel campo del vestiario i regolamenti sono
straordinariamente minuti. Uno spirito mal disposto o un pò bohème
parlerebbe di mania. Ecco, a titolo di esempio qualche riga tratta da
Hélyot, che descrive l'abito dei brigidini: «Si daranno... ai religiosi due
camicie da lavoro bianche, una tunica grigia, una cocolla uguale alla quale
sono attaccati un cappuccio e un mantello sulla quale i sacerdoti porteranno
dalla parte sinistra, una Croce-Rossa in memoria della Passione di Nostro
Signore e in mezzo alla croce un pezzetto di panno bianco a forma di ostia
in memoria del Santo Sacrifìcio che essi offrono tutti i giorni...» E così
via per i diaconi, i conversi e le suore (il cui mantello sarà abbottonato
«con un nodo di legno» e la «cuffia» trattenuta «sulla sommità del capo con
uno spillone» e sopra questo «soggolo» sarà disposto «un velo di tela nero
fermato con tre spilloni...».
Come nell'esercito, i minimi dettagli hanno qui la loro importanza e il loro
significato. Il colore non costituisce che un approccio grossolano alla
realtà. L'occhio esercitato percepisce subito l'importanza e il significato
dell'uno o dell'altro segno distintivo: la cintura di cuoio nero presso i
domenicani, di corda presso i brettini e i francescani, di lino o di cuoio
di cervo presso i benedettini di Bursfeld, ecc.
Gli apostolini portavano un vestito e uno scapolare e sopra, una grande
pellegrina di stoffa grigia, alla quale era attaccato un piccolo cappuccio.
I gesuati avevano un saio bianco chiuso da una cintura di cuoio, un mantello
bruno chiaro, un gran cappuccio quadrato che ricadeva in pieghe sulle
spalle. I celliti o alessiani si distinguevano per il loro vestito di sargia
nera e lo scapolare, della stessa stoffa, al quale era attaccato un
cappuccio. I boniti portavano una tunica, una cappa o cocolla in stoffa
solida di lana o di canapa con una cintura. Il vestito dei domenicani,
all'origine canonici regolari, è di lana bianca e la cintura di cuoio. Sulla
tunica e sotto il cappuccio, lo scapolare anch'esso di lana bianca, più
corto della tunica. La cappa è nera, senza maniche, con un cappuccio nero.
Quello dei cordiglieri - che sono francescani - comprende in particolare un
piccolo cappuccio, un mantello di grossa stoffa bruna, grigia o nera
(secondo le epoche) più una cintura di corda a tre nodi. In origine, il
vestito francescano era tagliato a forma di croce: «In manicarum et capiti
extensione fìguram crucis praesignamus».
Altri segni permettevano di identificare sul campo l'ordine religioso con il
quale si aveva a che fare. Una croce di lana rossa sulla falda sinistra del
mantello? Si trattava di un templare. Una «stella rossa a cinque punte con
un piccolo cerchio blu intorno»? i betlemmiti. Una croce e due gigli? I
celestini di Francia. Una croce di Malta in seta rossa con sopra una stella
a sei punte? I crocigeri della stella rossa.
I camaldolesi di Murano portano «un cappello bianco foderato di seta nera
fino ai bordi» gli umiliati un berretto di grossa lana grigia, i gesuati
«una cuffia o cappuccio bianco», che usano portare sulle spalle quando hanno
la testa scoperta. I carmelitani della congregazione di Mantova si
distinguono dagli altri carmelitani per un cappello bianco (da cui il
soprannome «del capei bianco») e una cuffia di traliccio con interno nero,
che giunge fino ai bordi...

Ecco direte: è chiaro. Secondo che si appartenga a uno o ad altro ordine o
congregazione si sarà vestiti in modo ben definito, che non lascia alcun
dubbio sull'appartenenza. Sarebbe conoscere molto male la natura umana
credere che così fosse. Il monaco porterà un cappuccio: ma di quale
lunghezza? Il fondatore o i suoi successori non hanno sempre pensato di
precisarlo. Da questo interminabili discussioni su quale deve essere il vero
cappuccio. Ma non c'è solo la lunghezza, c'è la forma. Per esempio i minori
scalzi alla fine del XV secolo portavano un cappuccio quadrato, ma lo
rendevano a punta come quello di San Francesco. E poi, non si sa come, per
rispetto alla regola (puritati regulae, rectitudinem regulae) ma anche delle
tradizioni, apparivano differenze in seno allo stesso ordine, da una
provincia all'altra: i camaldolesi di Francia portano un cappuccio a punta e
uno scapolare che scende fino alle ginocchia mentre i camaldolesi di San
Michele di Murano hanno un cappuccio tondo e uno scapolare lungo quanto
l'abito. Quando si parla di grandi e di piccoli agostiniani, di grandi e di
piccoli carmelitani il più delle volte è a causa delle dimensioni strette o
larghe dei loro abiti.
Tutto questo scatenava, certamente, epiche discussioni tra i fratelli tutti
persuasi gli uni più degli altri di avere ragione. I cappuccini,
soprattutto, uomini focosi quant'altri mai, giunsero a intentare processi ad
altre congregazioni francescane per il colore dell'abito, per la forma dei
sandali di cuoio, del cappuccio, della barba, del bianco cordone che serviva
come cintura, ecc. Detto questo, l'attaccamento dei religiosi al loro abito
è commovente. Il povero papa Gelasio II, un monaco di Montecassino che regnò
soltanto un anno (dal 24 gennaio 1118 al 28 gennaio 1119) e fu oggetto di
mille minacce e di mille angherie da parte dei Frangipani e dell'imperatore
Enrico V, sentendo avvicinarsi la fine, ritornò in Francia e morì nel suo
saio, a Cluny, sdraiato sul suolo.
L'abito caratterizza così bene il religioso che servirà molto spesso a
definirlo: la cintura di corda dei francescani li farà chiamare cordiglieri;
il grigio uniforme dei vallombrosani, monachi grisaei; il beige dei fratelli
della carità, frati bigi, che la forma dello scapolare aveva fatto
soprannominare anche billetes con allusione agli stemmi nobiliari; il
curioso mantello iniziale dei carmelitani fratres barrati o di pica; lo
scapolare in tela di sacco dei fratelli della penitenza, saccati o fratelli
socco; i mantelli dei serviti della Santa Vergine, i bianco-mantati[...]
Altri segni distintivi: alcuni potevano camminare solo a piedi, ad altri era
permesso il cavallo. A condizione, per gli ospitalieri di Sant'Antonio di
Viennois,che quest'ultimo porti una campanella al collo. Ad alcuni (i
trinitari), è concesso solo l'asino, per umiltà: per questo verranno
soprannominati i maturini. Nel 1252 papa Innocenzo IV dispensa i boniti dal
portare il bastone «alto cinque palmi, fatto a forma di stampella» che era
stato loro imposto per differenziarli dai minori. Nel 1255 papa Alessandro
IV ingiunse agli agostiniani di por
tare questo stesso bastone, decisione che fu del resto abrogata l'anno
successivo[...]
Accadde per gli abiti dei religiosi quello che accade per tutte le cose
umane: alcuni finirono nelle stranezze (i francescani della Cappucciola
condannati nel 1434 per questo motivo - tra gli altri!). I cluniacensi
nascosero - Dio solo sa perché; a meno che non fosse per timore di rivelare
la loro identità - lo scapolare stretto che li distingueva. I più stolti
seguirono la moda dei laici, portando scarpe strette e grandi mantelli
chiamati huque secondo l'usanza delle damigelle delle Fiandre (cujusmodi
flandrendes domicellae utuntur) coprendosi di colori vivaci e di cappucci a
forma di corno chiamati coquelucha con riferimento, penso, alla cresta del
gallo, cavalcando pubblicamente con la spada sul fianco.

Sui monaci v'è tanto ancora da scrivere, pertanto restate ancora con noi
su questo schermo (non cambiate canale) e vi assicuro anche un po di di
vertimento oltre che una sana lettura.

Guardrail
guardrail
2004-11-18 18:53:35 UTC
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Il corredo
Ecco il corredo di un monaco del X secolo quale lo descrive Hélyot: 2 camice
di sargia, 2 tuniche, 2 piviali, 2 cocolle (dette anche scapolari), 2 paia
di mutande (femoralia), 4 paia di scarpe per il giorno, pantofole per la
notte, 2 paia di ciabatte, 1 roc (abito di lana), 2 pellicce lunghe fino ai
talloni, guanti per l'estate, e muffole per l'inverno, zoccoli di legno,
bende o cinture (chiamate lumbaria presso i certosini, infìrmitates a Cluny,
brucile altrove) per legare in viaggio o «fermare» nel monastero in alto e
in basso le mutande.
Monget, lo storico della certosa di Digione, parla per l'anno 1389 di
acquisti di sargia bianca di Caen, di Inghilterra e di Arras, con la quale
si fanno coles (nome con cui si indicava la cocolla presso i certosini) e di
una consegna di panno bianco di Nevers destinata al corredo dei certosini:
due «cotte da giorno» due «cotte da riposo» (per la notte) due grandi
cocolle, due «aulmuces» (scapolari a cappuccio), tre paia di calzoni (dal
latino calcea, femminile di calceus, scarpe), e quattro paia di pantofole
(che erano di stoffa bianca presso i certosini). Monget segnala inoltre, una
consegna di brunete (panno sottile di merinos, di colore molto vicino al
nero) per fare cappe, di camelin di Beaumont che è un panno double-face, in
lana, raramente tinto e che va dal grigio al bruno scuro, e mantelli in
pelle di pecora per la passeggiata che fanno, regolarmente, i certosini.
Un testo del 1389 dice che l'abate benedettino di Saint-Pierre-de-Bèze darà
ai monaci 5 aune (antica unità di misura) di camelin di buona qualità; 5
pezzi di blainchot, stoffa bianca; 5 aune e mezzo di tela; un saio, una
cocolla e un cappuccio, un paio di stivali per l'inverno e un paio
«d'estivaux» per l'estate. Non dimentichiamo il fazzoletto (sudarium o
mappula), il pettine di legno, il coltello (a Fontevrault viene precisato
che il valore di un coltello sarà di 2 denari e quello della guaina di 1
denaro) l'ago e il filo, lo stiletto e la tavoletta per scrivere che
completano l'attrezzatura del solitario.
Sotto la pressione delle difficoltà finanziarie, si diffuse poco a poco
l'uso di accordare una certa somma a ciascun monaco per il mantenimento del
suo «vestiario», come si diceva allora. Tale politica venne applicata in
seguito a una decisione presa dal capitolo generale di Citeaux nel 1396. Ma
Cluny la praticava già un secolo prima . Non è sicuro che questo sistema
fosse buono: apriva la via sia alla negligenza nel vestiario, sia alla
ricerca eccessiva. Inoltre c'era la tentazione per i superiori di non
adempiere ai loro doveri di fronte a coloro che erano loro soggetti: i
rapporti dei visitatori cluniacensi sono pieni di fatti del genere:
«Nonnulli priores monachis suis pro vestiario suo dant pecuniam (Capita che
alcuni priori diano denaro ai loro monaci per il loro vestiario)». Un altro
testo del 1290 cita un monaco che rivendica un arretrato di... dodici anni
di vestiarium. Si decide di accordargli una quota sufficiente perché si
vesta in modo conveniente e di convertire il resto in un bel messale. Un
altro rapporto dei visitatori di Cluny segnala che i monaci di una certa
abbazia non ricevono che un saio all'anno tanto che succede loro sovente di
attendere alle loro attività "sine froccis".

Il colore
Si comprenderà come, per uomini che accordavano una tale importanza al
simbolismo dell'abbigliamento la scelta del colore fosse capitale. Essa è
variata, possiamo dire, all'infinito.
A piacimento dei secoli e delle nazioni, a piacimento soprattutto dei
fondatori di ordini. Alcuni all'inizio si accontentarono di utilizzare la
lana quale si presentava grigia, bruna o nera, secondo i casi; altri
facendola imbiancare, altri infine facendola tingere. I primi benedettini
furono all'inizio vestiti di bruno o, più esattamente, di rossiccio
(subfulvi, dice un testo), poi di nero, colore di penitenza, di lutto e
d'umiltà. Colore anche che aiutava la pulizia poiché le macchie si vedevano
in fretta! Solo i Paesi germanici e anglosassoni che sembrano aver avuto
delle difficoltà, non sappiamo perché, a procurarsi del tessuto nero,
continuarono a utilizzare stoffe di colore marrone. Molti portarono anche
abiti neri: i monaci di Grandmont, i serviti, i monaci di Fontevrault,
quelli della congregazione di Tiron, (all'origine grigio cenere) gli
agostiniani, i carmelitani. I cistercensi, al contrario, sono chiamati
«monaci bianchi» perché il loro vestito era fatto di lana naturale (era
dunque piuttosto cinerino ed è così che le miniature li rappresentano più
spesso). Un autore li descrive «raggruppati come uno stormo di gabbiani
scintillati di un biancore di neve». Si dice che in seguito a una visione
del loro santo fondatore, i camaldolesi che avevano portato fino ad allora
l'abito dei benedettini neri, adottarono vestiti tutti bianchi, simbolo
della purezza, che essi furono i primi a usare.
I vestiti dei mercedari e dei trinitari erano bianchi, ma con una cintura di
cuoio nero. I primi portavano sul petto, per il privilegio accordato dal re
Giacomo I d'Aragona (1213-1276) le armi reali e la croce della cattedrale di
Barcellona, e i secondi, sul lato sinistro della cappa, una croce di stoffa
formata da una banda rossa e da una nera.
Pure bianco, colore dell'ostia, dell'angelo della Risurrezione e di Maria, e
di lana rustica «perché facciano penitenza» l'abito dei premostratensi. O
ancora quello dei certosini, degli avellaniti, dei paolini, dei guglielmiti,
degli olivetani («per cortesia verso Nostra Signora, Regina del Cielo»), dei
domenicani, dei monaci di Montevergine senza dimenticare i canonici regolari
della basilica del Laterano (dai quali, si dice, i papi hanno preso in
prestito questo colore) che l'avevano adottato «per non rischiare di essere
confusi con i secolari».
Sono vestiti di colore beige (bigiognola), di grigio o di grigio cenere
(cenerognola) i paolini (almeno fino all'epoca in cui adottarono il bianco,
verso il 1342), i poveri volontari, i begardi, i religiosi della
congregazione di Savigny, i beghini chiamati per questo «piccoli fratelli
bigi») o «bisets» (come i piccioni!) e senza dubbio anche i francescani
poiché sono chiamati in inglese Grey Frias. E' probabile che si tratti
ancora una volta di lana cruda, di colore incerto tra il bruno, il grigio e
il bianco.
Per evitare ogni discussione a proposito del colore, San Giovanni Gualberto,
fondatore di Vallombrosa, fece tessere panni con la lana bianca e nera: ne
risultò, si dice, un vestito grigio ferro che valse ai monaci il soprannome
di monaci grigi, monachi grisaei. Così fu risolto il problema
dell'uniformità. I cordiglieri, i membri della congregazione di Valladolid,i
poveri volontari (in altra epoca) gli eremiti di Monserrato, ecc., portavano
vestiti di colore bruno, marrone o tanè. Tra i colori più raramente
utilizzati, citiamo il blu dei bonshommes, dei fratelli saccati, dei
francescani dell'America Latina, e questo malgrado le proibizioni ripetute
dei capitoli generali, perché, loro dicevano, gli Indi (e probabilmente gli
stessi fratelli) amavano questo colore; il rosso, o quasi rosso, proposto
dagli statuti di Goderic abate di Réome (1240); il verde degli apostolini
(XV secolo).
I religiosi non portano necessariamente vestiti di un solo colore. Succede
spesso che una parte sia di un colore e un'altra di colore diverso. Il
tutto, bisogna sottolinearlo, sistemato con un gusto, un senso delle
sfumature e un'armonia quasi sempre perfetti. Presso i celestini, per
esempio, la tunica è bianca, mentre lo scapolare, il cappuccio e il
girocollo sono neri. A Fonte Avellana il vestito è bianco ma il mantello è
turchino come è anche l'abito dei silvestrini che orlano maniche e collo di
faille bianco. La cappa dei carmelitani è bianca a partire dal 1287, ma la
cocolla è bruna. A Luxeuil il vestito è bianco con uno scapolare o
pellegrina blu o violetto. I celliti o alessiani portano come tutti i
«poveri volontari», vestiti di lana non tinta, uno scapolare nero, un
mantello grigio a larghe pieghe, ecc.
Inoltre, i colori cambiano: all'inizio del XII secolo, la cocolla dei
cistercensi passa dal grigio al nero,mentre la tunica cambia da marrone a
grigia. Il caso dei carmelitani è ancora più complicato: dalla Palestina
essi hanno portato una djellaba a strisce: tre brune che ricordano le virtù
teologali, e quattro bianche per le virtù cardinali. Ma questo procura loro
molte canzonature e il papa Onorio (1216-1227) ingiunge loro di sostituirla
con una tunica grigia e una cappa bianca: essi rifiutano. Soltanto nel 1284,
si rassegnano ad adottare il vestito nero con un cappuccio e lo scapolare
dello stesso colore e sopra un'ampia cappa e una pellegrina nera o bruno
scuro, Nel coro i carmelitani portavano e portano ancora il mantello e il
cappuccio bianco, cosa che varrà loro il nome di White Friars.
In alcuni conventi, a Saint-Vaast d'Arras, per esempio, il colore cambia a
seconda che si tratti dell'abate, di un diacono, di un prete, di professo o
di novizio. Presso i silvestrini, il generale ha diritto al colore violetto.
Riconoscibili grazie al loro vestito, i monaci erano ottimi bersagli della
malignità pubblica. Conosciamo il proverbio «l'abito non fa il monaco».
Conosciamo anche questo verso di Rutebeuf che riguarda le monache o
monachelle:
Le bianche, le grigie, le nere monache
Sono sovente pellegrine a sante a santi
Dio è certo loro grato
Io ne sono meno sicuro.

I guanti
Troviamo traccia di mezziguanti (mitteanae laneae, dal francese antico mile,
uno dei nomi del gatto, con riferimento alla sua pelliccia) di guanti
d'estate (wantis) e di muffole (muffulae) che si portavano in inverno. Un
testo del 1385 parla di 110 dozzine di paia di guanti «orlati sotto il
pollice» destinati ai muratori che lavoravano alla certosa di Digione. Il
tutto utilizzato in 15 mesi! Si lavorava sodo in questo monastero. Presso i
templari, i cappellani erano autorizzati a portare guanti (ciò prova che il
fatto era eccezionale), «per riguardo verso il loro stato di rappresentanti
di Dio».

Calzati e scalzi
Vivono, vanno e vengono a piedi nudi gli eremiti, i primi francescani,
carmelitani e domenicani, i gesuati, gli avellaniti, i camaldolesi, i monaci
della congregazione di Flore, ecc.
I monaci dell'abbazia di Le Bec stanno scalzi nel chiostro dalle calende di
ottobre fino a Pasqua. I carmelitani detti scalzi camminano con scarpe di
corda. I saccati, e gesuati (dopo essere stati a piedi nudi), i poveri
apostolici, gli olivetani, hanno sandali di legno; i trappisti, degli
zoccoli. I bernardini vanno a piedi nudi, cioè senza calze in zoccoli (o
calopodes) che sono stivaletti ispirati ai contadini del luogo. Da qui il
loro soprannome di zoccolanti. I certosini portano calzature (solatures) di
cuoio (de bovina pelle), o calzature con la suola di legno (socci) in
inverno. Ricevono due paia di scarpe all'anno e grasso (di maiale, a
Camaldoli) per ungerle. I lacci sono in canapa (de cruda cannabe) più
rustica del lino. Un testo di Monget parla dell'attività del «cuoiaio»
(calzolaio) che fa stivali guarniti di feltro «per l'esercito dei
certosini»; bisogna dire che questi monaci si stabilivano sempre in ambienti
particolarmente difficili e molto spesso montagnosi.
Si segnalano anche calzature da giorno e calzature da notte (senza dubbio
pantofole poco rumorose). In inverno, l'uso di calzature con la suola di
legno chiamate anche patini, guarnite di chiodi, era molto diffuso se
statuti del 1259 proibiscono ai canonici di Aix di entrare così equipaggiati
nella chiesa con il rischio di fare un gran rumore (strepitum magnum). Le
caligae o pedules , le calze sono di lana greggia, bianca o grigia lunghe in
inverno per poterle attaccare alla cintura, più corte in estate perché
vengono legate sotto il ginocchio. Presso i certosini esse sono di tela.
Il XVI secolo sarà caratterizzato da una serie di riforme tendenti a
introdurre o a reintrodurre secondo i casi,un'osservanza più severa. Uno dei
segni di questo ritorno alle origini, sarà precisamente la comparsa di
religiosi «scalzi».
In tutti gli ordini le vecchie calzature erano distribuite ai poveri a una
data fissa, sovente a Pasqua. Ugualmente veniva fatto per i vestiti e le
pellicce. Presso i brigidini, alla morte di un religioso i suoi vestiti
venivano dati in regalo. Alcuni si sono meravigliati di tali generosità in
un'economia tutto sommato di quasi penuria. Ma non bisogna dimenticare che
nella fattispecie, i monaci praticavano l'elemosina per i vestiti, come lo
facevano per il cibo e l'ospitalità. Calzature e vestiti erano del resto
prodotti relativamente di scarso valore, tenuto conto del basso costo della
manodopera monastica e dell'importanza delle greggi. D'altra parte, poiché
un vestito veniva portato giorno e notte, sovente per un anno, doveva venire
la tentazione di cambiarlo.
A proposito di calzature, la debolezza della natura umana non mancava di
intromettersi: gli snob dell'epoca (nel XIV secolo) presero l'abitudine di
portare scarpe di colori diversi e Concordanti con quelli delle braghe (come
mai i nostri moderni «figurini» non ci hanno ancora pensato?). Si dovette
proibire al clero di imitarli e gli si ordinò di non portare che calzature
nere. Ugualmente, i «claustrali» non avevano il diritto di portare scarpe
strette perché, dice un autore dell'epoca, «i piedi, calzati troppo stretti,
sono indizio di cuore colpevole[...] dal quale deriva un comportamento
cattivo», cosa da escludere «se il cuore non pensa a follie».

La biancheria intima
Biancheria o no? Importante problema senza dubbio. All'origine esso non si
pone. Gli eremiti non hanno evidentemente l'intenzione di coccolarsi;
l'abito, di lana cruda, di faille, di pelle di capra, viene posto
direttamente sul corpo. A meno che un cilicio di crini di cavallo, tutto
pieno di nodi (presso i celestini) o di pelo di porco o ancora una maglia di
ferro, come portava Sant'Etienne de Muret, fondatore di Vallombrosa, non
«tormenti in sovrappiù il corpo».
Del resto, chi portava biancheria nei primi secoli della vita medioevale?
Questa abitudine era per gente delicata ed effeminata. I monaci imitavano
dunque i loro maestri in materia di ascetismo. «Lineis ne utantur ad
carnem», dice la regola. Era una privazione? Senza dubbio, poiché vediamo
proibire,in un buon numero di regolamenti, di portare camicia, qualunque
essa sia, di lana (staminea, interula) o di tela (camisia). Per sottolineare
l'ascetismo di certi monaci gallicani, si racconta che essi si privavano di
carne, di donne, di cavallo e... di biancheria intima. Il fatto di non
portare camicia era dunque considerato come una mortificazione: è il caso
dei monaci di Montecassino (dove si tollera tuttavia «un sudario di tela
grossolana sotto la tunica di sargia»), dei camaldolesi, dei cistercensi (ma
i fanciulli erano autorizzati a portarne, a condizione che fosse di lino o
di canapa) dei vittorini di Marsiglia.
Al contrario carmelitani, serviti, benedettini di Bursfeld, domenicani e
premostratensi portano la camicia di lana ruvida; i celestini, i silvestrini
e, più tardi, i maurini, la camicia di sargia; i religiosi di Fontevrault la
camicia di lino o di canapa «normalmente di blauchette o di étamine». I
certosini, i templari e i cavalieri dell'ordine teutonico portano della
tela. Calmet parla anche di camice di faille, una specie di seta ruvida
tessuta grossolanamente. Il lino, le camicie di lino (lineas camisias o
stamineas ètamine) verranno più tardi. Inutile dire che in questo alcuni
videro un segno di decadenza. Un autore del Medio Evo rivolge aspri
rimproveri ai monaci che, «alloggiavano nei boschi, vestivano tele e panni
ruvidi e pieni di pidocchi» e ora non si preoccupano più di vestirsi di
lana,.. ma di lino. L'indignazione era così forte che vediamo i begardi o
beghini giungere fino a sollevare l'abito dei frati minori per mostrare che
portavano, o scandalo, una camicia...
Là dove la camicia è autorizzata, il monaco ne riceva due: «l'una da
portare, l'altra da lavare» scrivono i brigidini. San Benedetto aveva detto:
«Propter lavare ipsas» (Reg. LV, 21). Credereste che ci fosse spazio, tra le
preoccupazioni di questi santi uomini per delle ricerche in materia di
camicie? Eppure, un rapporto steso nel 1299 dai visitatori dell'ordine di
Cluny ordina al padre abate di acquistare lui stesso dell'émine e di
vegliare a che i fratelli non portino abiti contrari alla regola - diciamo
al regolamento (irregularibus).

La pulizia della biancheria
II concilio di Aix-la-Chapelle (817) decise che i monaci avrebbe lavato e
pulito da soli i loro vestiti. Un lavatoio (lotorium), dei recipienti
(ablutatorium), sapone, acqua di cenere, acqua calda erano previsti a questo
scopo. Alla certosa di Digione, erano state scavate due vasche l'una per la
cucina e l'altra, ci viene detto, per la camera del «sacrestano» per
«lavarvi i panni, i vestiti e altre cose necessarie alla chiesa».
Il lavaggio veniva fatto ogni 15 giorni. Le costituzioni di Bursfeld
esigevano che la camicia fosse lavata una volta al mese in estate e due
volte in inverno. È almeno curioso. A Cluny era permesso parlare durante
questa operazione. I vestiti erano messi ad asciugare in un locale speciale
o stesi sul prato del chiostro (in herbario claustri). Era tuttavia proibito
sospenderli su una corda, ci dicono le Consuetudines cluniacenses. Spetta
all'incaricato settimanale (hebdomadarii) lavare le tovaglie (mappas) e i
tovaglioli (facitergia o manutergia, per le mani e la faccia, tersoria per i
piedi) come i fazzoletti (mappulae) del resto vicini agli asciugamani per le
loro dimensioni (1 piede per 3) e che i monaci portavano sospesi alla
cintura.
Notiamo infine che gli usi cistercensi prevedono che, se i monaci vanno alla
toillette (ad necessaria), devono togliersi preferibilmente la cocolla.
D'altra parte gli escrementi (flegma) del naso e della bocca dovevano essere
accuratamente pestati con il piede, non soltanto per non provocare nausea
agli spiriti deboli (infirmis mentibus, dice la raccolta di usi di Eynsham)
ma anche perché al momento della preghiera i fratelli non sporchino i loro
vestiti.

Avete contato quanti ordini monastici sono stati menzionati ?
Tanti. Prima o poi dovrò postare qualcosa di più preciso.
Ora ne saprete molto di più (credo) sui monaci. Ma non è an
cora finita e devo preparare ancora qualche sorpresina.

Guardrail

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