guardrail
2005-11-11 21:59:59 UTC
L'uso della formula «per grazia regia» ci permette di scorgere un
altro principio derivante direttamente da essa:
il principio della concessione.
Era il re che concedeva ai suoi sudditi diritti e così via, e viceversa,
il concetto stesso di concessione escludeva l'idea di un diritto alla
cosa concessa. L'idea di concessione era l'idea di grazia regia tra
dotta nella pratica.
Era questo un elemento essenziale in tutte le forme di pensiero teo
cratico ed era riconoscibile sia nel governo papale che in quelli re
gi e imperiali. Il governo teocratico era caratterizzato dalla conces
sione da parte del governante ai propri sudditi di diritti che essi al
trimenti non avrebbero avuto.
Il potere veniva «dall'alto» e veniva trasmesso in basso mediante
un atto di concessione. Il parallelismo tra il re, a cui Dio concedeva
il suo potere e i sudditi ai quali il re concedeva diritti, ivi incluso il
potere - la gratia regis - era invero sorprendente.
Il re non era tale per grazia di nessun altro all'infuori di Dio.
L'altra faccia della medaglia, il contrario della gratia regia, era la
indignatio regia (disgrazia come contrario di grazia), ossia il ritiro
della benevolenza del re nei confronti del suo suddito.
In breve, come al re era stata concessa la sua posizione, così al
suddito era concessa la sua: entrambi la conservavano e la perde
vano per opera della grazia.
Dato che la grazia (benevolenza, favore) assumeva un ruolo così
essenziale nella struttura del governo teocratico, non desta grande
stupore l'attribuzione al re del ruolo di vicario di Dio.
In quanto beneficiario dei favori divini, il re era scelto e si trovava
in comunicazione particolarmente stretta con Dio. E per quanto ri
guardava gli scopi pratici non vi è da stupirsi che apparisse agli oc
chi dei contemporanei come il rappresentante di Dio in terra, per
ché Dio aveva riposto in lui una particolare fiducia. Tale funzione
di rappresentante di Dio trovava valido sostegno nella unzione re
gia, che confermava in maniera visibile e sensibile - se pure non lo
stabiliva - il vincolo tra re e Dio. Il fatto che gli anni del regno, fino
al tredicesimo secolo, non venissero datati dal momento dell'asce
sa al trono, bensì da quello dell'incoronazione, cioè dal momento
dell'unzione, non era semplicemente una sottigliezza diplomatica,
ma aveva un significato ben più profondo: egli non era re finché
l'olio non aveva trasformato il suo essere.
In questo atto di unzione si ravvisava un segno tangibile che la gra
zia divina era stata conferita al re.
L'unzione - col crisma e sul capo - non consentiva dubbi che la vo
lontà di Dio (ossia la grazia) era diventata operativa, di modo che
il re era considerato l'unico beneficiario di tali favori nel suo regno.
Riconoscere nel re il vicario di Dio era soltanto un altro modo per
dire che Dio era presentialiter nel re: significava che, non essendo
Dio su questa terra, Egli aveva designato un suo vicario.
Non occorre sottolineare quali vitali e importanti conseguenze po
tessero venir tratte da questa funzione regia di vicario di Dio.
Come vedremo tra breve, l'intero regno era affidato al re, il che
significava in pratica, e ad ogni modo nella concezione regia, che
sia il laicato che il clero erano suoi sudditi, che il governo neces
sariamente comportava ordinamenti concernenti interessi cristiani
- e ciò spiega l'intervento in questioni dottrinali di governanti pie
namente indirizzati in senso teocratico - come pure la nomina di
funzionari ecclesiastici, poiché un regno cristiano doveva avere
organi ecclesiastici appropriati per l'amministrazione dei misteri
divini, e così via. E' bensì vero che anche i vescovi erano consa
crati e che anche essi erano vescovi per grazia di Dio, ma ai fini
di governo la posizione episcopale contava poco se si considera
che il meccanismo effettivo del governo era concentrato nelle ma
ni del re, che i vescovi, secondo la concezione regia, avevano sol
tanto la cura animarum di cui il re non poteva occuparsi e non si
occupava, e che i rescritti del vescovo valevano soltanto entro la
diocesi, mentre quelli del re valevano in tutto il regno.
Il potere propriamente governativo, ossia giurisdizionale, era con
cesso unicamente al re, il quale, avendo avuto il regno in conse
gna, era tenuto a governare tutti i suoi sudditi, e ciò faceva per
mezzo della legge. La mancanza di una opposizione episcopale
alla dottrina della teocrazia regia è degna di nota.
L'unzione, conferendo visibilmente la grazia di Dio al re, faceva
di lui un christus Domini, l'unto del Signore, al quale, secondo la
testimonianza del Vecchio Testamento, era concessa una posi
zione particolare.
E' quindi pienamente comprensibile che il re si interessasse e no
minasse i funzionari ecclesiastici del suo regno.
Teoricamente parlando si potrebbe dire che ogni carica nel regno
era in ultima istanza conferita per grazia del re. Perciò il ritiro della
grazia, derivante dalla indignato regia, equivaleva giuridicamente ad
una privazione della carica. Vi sono altresì motivi per ritenere che
la condizione di nobiltà fosse assai spesso raggiunta mediante il pre
cedente possesso di una carica conferita dal re, e venisse quindi
considerata a disposizione di questi. Ma, la legge soprattutto, in
quanto strumento attraverso il quale la sovranità divinamente con
ferita operava nella pratica, era il risultato della voluntas regia.
Ovvero, in termini negativi, le leggi non dovevano il loro carattere
vincolante alla volontà di una assemblea popolare o di un concilio
o simili, bensì alla volontà del re.
Questa funzione teocratica del re non escludeva naturalmente la
consultazione, ma ciò che va sottolineato è che il carattere di ob
bligatorietà delle leggi aveva le sue radici non già nel consenso
dato da magnati, baroni, ecc., bensì nella volutas regia.
Pertanto la legge del re teocratico era una concessione regia, ed
essa esprimeva la sua interpretazione e la sua opinione, la sua co
noscenza del Vangelo e di altre fonti non-giuridiche.
Egli poteva certamente ascoltare i consigli offertigli, ma l'adottarli
o meno dipendeva, in linea di principio, dalla voluntas principis,
la quale era l'elemento che conferiva carattere vincolante ai suoi
decreti. In quanto legislatore il re teocratico era autonomo, indi
pendente e, per usare un termine moderno che appare del tutto
legittimo in questo contesto, si considerava sovrano.
Walter Ullmann. Principi di governo e politica nel Medioevo,
Il Mulino, Bologna. 1982.
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altro principio derivante direttamente da essa:
il principio della concessione.
Era il re che concedeva ai suoi sudditi diritti e così via, e viceversa,
il concetto stesso di concessione escludeva l'idea di un diritto alla
cosa concessa. L'idea di concessione era l'idea di grazia regia tra
dotta nella pratica.
Era questo un elemento essenziale in tutte le forme di pensiero teo
cratico ed era riconoscibile sia nel governo papale che in quelli re
gi e imperiali. Il governo teocratico era caratterizzato dalla conces
sione da parte del governante ai propri sudditi di diritti che essi al
trimenti non avrebbero avuto.
Il potere veniva «dall'alto» e veniva trasmesso in basso mediante
un atto di concessione. Il parallelismo tra il re, a cui Dio concedeva
il suo potere e i sudditi ai quali il re concedeva diritti, ivi incluso il
potere - la gratia regis - era invero sorprendente.
Il re non era tale per grazia di nessun altro all'infuori di Dio.
L'altra faccia della medaglia, il contrario della gratia regia, era la
indignatio regia (disgrazia come contrario di grazia), ossia il ritiro
della benevolenza del re nei confronti del suo suddito.
In breve, come al re era stata concessa la sua posizione, così al
suddito era concessa la sua: entrambi la conservavano e la perde
vano per opera della grazia.
Dato che la grazia (benevolenza, favore) assumeva un ruolo così
essenziale nella struttura del governo teocratico, non desta grande
stupore l'attribuzione al re del ruolo di vicario di Dio.
In quanto beneficiario dei favori divini, il re era scelto e si trovava
in comunicazione particolarmente stretta con Dio. E per quanto ri
guardava gli scopi pratici non vi è da stupirsi che apparisse agli oc
chi dei contemporanei come il rappresentante di Dio in terra, per
ché Dio aveva riposto in lui una particolare fiducia. Tale funzione
di rappresentante di Dio trovava valido sostegno nella unzione re
gia, che confermava in maniera visibile e sensibile - se pure non lo
stabiliva - il vincolo tra re e Dio. Il fatto che gli anni del regno, fino
al tredicesimo secolo, non venissero datati dal momento dell'asce
sa al trono, bensì da quello dell'incoronazione, cioè dal momento
dell'unzione, non era semplicemente una sottigliezza diplomatica,
ma aveva un significato ben più profondo: egli non era re finché
l'olio non aveva trasformato il suo essere.
In questo atto di unzione si ravvisava un segno tangibile che la gra
zia divina era stata conferita al re.
L'unzione - col crisma e sul capo - non consentiva dubbi che la vo
lontà di Dio (ossia la grazia) era diventata operativa, di modo che
il re era considerato l'unico beneficiario di tali favori nel suo regno.
Riconoscere nel re il vicario di Dio era soltanto un altro modo per
dire che Dio era presentialiter nel re: significava che, non essendo
Dio su questa terra, Egli aveva designato un suo vicario.
Non occorre sottolineare quali vitali e importanti conseguenze po
tessero venir tratte da questa funzione regia di vicario di Dio.
Come vedremo tra breve, l'intero regno era affidato al re, il che
significava in pratica, e ad ogni modo nella concezione regia, che
sia il laicato che il clero erano suoi sudditi, che il governo neces
sariamente comportava ordinamenti concernenti interessi cristiani
- e ciò spiega l'intervento in questioni dottrinali di governanti pie
namente indirizzati in senso teocratico - come pure la nomina di
funzionari ecclesiastici, poiché un regno cristiano doveva avere
organi ecclesiastici appropriati per l'amministrazione dei misteri
divini, e così via. E' bensì vero che anche i vescovi erano consa
crati e che anche essi erano vescovi per grazia di Dio, ma ai fini
di governo la posizione episcopale contava poco se si considera
che il meccanismo effettivo del governo era concentrato nelle ma
ni del re, che i vescovi, secondo la concezione regia, avevano sol
tanto la cura animarum di cui il re non poteva occuparsi e non si
occupava, e che i rescritti del vescovo valevano soltanto entro la
diocesi, mentre quelli del re valevano in tutto il regno.
Il potere propriamente governativo, ossia giurisdizionale, era con
cesso unicamente al re, il quale, avendo avuto il regno in conse
gna, era tenuto a governare tutti i suoi sudditi, e ciò faceva per
mezzo della legge. La mancanza di una opposizione episcopale
alla dottrina della teocrazia regia è degna di nota.
L'unzione, conferendo visibilmente la grazia di Dio al re, faceva
di lui un christus Domini, l'unto del Signore, al quale, secondo la
testimonianza del Vecchio Testamento, era concessa una posi
zione particolare.
E' quindi pienamente comprensibile che il re si interessasse e no
minasse i funzionari ecclesiastici del suo regno.
Teoricamente parlando si potrebbe dire che ogni carica nel regno
era in ultima istanza conferita per grazia del re. Perciò il ritiro della
grazia, derivante dalla indignato regia, equivaleva giuridicamente ad
una privazione della carica. Vi sono altresì motivi per ritenere che
la condizione di nobiltà fosse assai spesso raggiunta mediante il pre
cedente possesso di una carica conferita dal re, e venisse quindi
considerata a disposizione di questi. Ma, la legge soprattutto, in
quanto strumento attraverso il quale la sovranità divinamente con
ferita operava nella pratica, era il risultato della voluntas regia.
Ovvero, in termini negativi, le leggi non dovevano il loro carattere
vincolante alla volontà di una assemblea popolare o di un concilio
o simili, bensì alla volontà del re.
Questa funzione teocratica del re non escludeva naturalmente la
consultazione, ma ciò che va sottolineato è che il carattere di ob
bligatorietà delle leggi aveva le sue radici non già nel consenso
dato da magnati, baroni, ecc., bensì nella volutas regia.
Pertanto la legge del re teocratico era una concessione regia, ed
essa esprimeva la sua interpretazione e la sua opinione, la sua co
noscenza del Vangelo e di altre fonti non-giuridiche.
Egli poteva certamente ascoltare i consigli offertigli, ma l'adottarli
o meno dipendeva, in linea di principio, dalla voluntas principis,
la quale era l'elemento che conferiva carattere vincolante ai suoi
decreti. In quanto legislatore il re teocratico era autonomo, indi
pendente e, per usare un termine moderno che appare del tutto
legittimo in questo contesto, si considerava sovrano.
Walter Ullmann. Principi di governo e politica nel Medioevo,
Il Mulino, Bologna. 1982.
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