Rocky3
2004-10-07 07:46:49 UTC
Buongiorno a tutti!
Approfittando della mia febbre che perseguita, ieri sera ho fatto una
ricerchina su internet e ho trovato questo .pdf molto carino di Cardini,
ovviamente può divenire uno spunto di dibattito (Guardrail non ridere :-)).
Potete trovare il documento intero su
http://www.enec.it/VersoGerusalemme/19_CARDINI.pdf, ma qui vi ho tagliato
la seconda metà in cui si parla dell'età moderna che sarebbe
inevitabilmente OT. Spero vi piaccia!
Ciao :-)
Davide
FRANCO CARDINI
IMMAGINE E MITO DEL SALADINO IN OCCIDENTE
“E solo, in parte, vidi il Saladino” (1).
Giunto nella zona luminosa del limbo, rischiarata dal fuoco che vince le
tenebre – ma che pur da esse è fasciato - , al “nobile castello” degli
“spiriti magni”, Dante scorge tra i “pagani” privilegiati solo tre
musulmani: il Saladino, appunto, nonché i due grandi maestri delle scienza
e della filosofia del suo e d’ogni tempo, Avicenna e Averroè.
Come tutti i cristiani occidentali colti della sua epoca, l’Alighieri aveva
alcune nozioni su Muhammad (condannato nel XXVIII dell’Inferno tra i
seminatori di scismi) e sull’Islam; ma soprattutto condivideva un diffuso
atteggiamento non privo di qualche schizofrenia. Da una parte, difatti,
l’idea di crociata lo conduceva ad assumere al riguardo una posizione di
netta inimicizia, come si riscontra nella glorificazione, nel cielo di
Marte descritto nel XVIII canto del Paradiso, di colui che ormai dai primi
del XII secolo - grazie al lavoro apologetico di cronisti e di poeti
filolorenesi - si considerava il vero capo della spedizione che nel 1099
aveva condotto alla conquista di Gerusalemme, Goffredo di Buglione duca
della Bassa Lorena. Dall’altra, però, l’esempio stesso di Francesco
d’Assisi che aveva potuto testimoniare il Cristo “nella presenza del soldan
superba” ed era stato ben accolto (ma la lunga storia dei rapporti
islamo-cristiani, prima di allora e in seguito, sono pieni di episodi come
questo), induceva a riflettere sui molti casi nei quali - a cominciare dai
fitti ed abituali rapporti economici e commerciali - i rapporti tra fedeli
del Cristo e fedeli del Corano si erano improntati ad amicizia e a simpatia
reciproca. E, da un’altra ancora, il poeta fiorentino e il suo filosofo per
eccellenza, Tommaso d’Aquino, erano ben consci del debito che nel campo
delle scienze e della filosofia la Cristianità medievale sapeva di
riconoscere al mondo musulmano.
Il debito specifico di Dante, d’altro canto, era ben più forte e profondo
(2). Per individuarlo e circoscriverlo, bisogna rifarsi all’insieme dei
racconti in arabo che si riferiscono a una tradizione riguardante il
Profeta attestata dalla Sura 17 del Corano, la Sura del Viaggio nofturno, e
da una serie di hadith riguardanti il miraj, cioè l’ascensione notturna del
Profeta da Gerusalemme al cielo in sella al cavallo Buraq. L’originale
arabo che coordina questa serie di racconti è andato perduto, ammesso che
sia mai veramente esistito: tuttavia Abraham Alfaquim ne aveva compilato
una riduzione dall’arabo al castigliano della quale verso il 1264
Bonaventura da Siena, domini regis notarius et scriba alla corte di Alfonso
X di Castiglia, aveva ricavato una versione latina e una francese. Presso
quel sovrano, proprio nei medesimi anni, era esule da Firenze il guelfo
Brunetto Latini che, viaggiando in Spagna al tempo della battaglia di
Montaperti del 1260, che aveva segnato l’inizio di un periodo di governo
ghibellino nella sua città, aveva preferito non tornare in patria. Non
sappiamo se nella bisaccia di Brunetto Latini, che sarebbe rientrato a
Firenze di lì a qualche anno, vi fosse una copia del Liber de Scala, o
un’epitome, o degli appunti; non sappiamo per quale via il più illustre
allievo del Latini, Dante Alighieri, sia pervenuto a conoscere il contenuto
di quel testo. Certo è che le analogie tra il Liber e la Divinn Commedia
sono tali e tante che ormai si può con certezza affermare che l’ascensione
del Profeta, ritessuta e rinarrata attraverso una serie di successivi
racconti, sia uno dei fondamenti - il più profondo forse – del più grande
poema del medioevo occidentale (3).
Francesco, nel suo incontro con il sultano che Dante ha richiamato nell’XI
canto del Paradiso, era entrato in contatto con al-Malik al-Kamil,
rappresentante della dinastia ayyubide e nipote quindi d’un personaggio che
già ai tempi dell’Alighieri - ma addirittura fin da quelli dello stesso
Povero d’Assisi - era un paradossale modello cavalleresco. Difatti, se da
una parte la cavalleria cristiana aveva nella crociata e nella guerra
all’infedele il suo momento paradigmatico, dall’altra è singolare - e tanto
più significativo - che l’idealtypus del cavaliere fosse, a partire dal
Duecento, non un cristiano ma un musulmano. Una sottintesa polemica forse
contro le scarse virtù dei cristiani, che su un terreno che avrebbe dovuto
essere per eccellenza loro si vedevano invece costretti a prendere lezioni
da un infedele. E magari una loro astuzia: dal momento che quel personaggio
aveva più volte battuto - in battaglia e in magnanimità - i guerrieri della
croce, era necessario dimostrarne l’assoluta eccezionalità. Il fiore della
cavalleria cristiana non poteva certo essere stato sconfitto da un pagano
qualsiasi. Ma chi era, insomma, quel pagano scandalo e modello per i
cristiani?
Yusuf ibn Ayyub, il cui laqab e Salah ad-Din, “la santità della religione”,
il sultano curdo che aveva eliminato il califfato sciita del Cairo,
ristabilita l’osservanza sunnita in tutto il Vicino Oriente, assoggettati
Egitto e Siria e nel 1187 riconquistato all’Islam Gerusalemme, si guadagnò
in tutto l’Occidente una straordinaria fama. Ciò si deve in parte anche al
fatto che in un modo o nell’altro egli sconfisse i più illustri sovrani
d’Occidente, come Riccardo Cuor di Leone. Era a quel punto impossibile non
creare attorno alla sua figura una fama d’invincibilità quasi sovrumana: il
contrario avrebbe equivalso a condannare i capi della terza crociata,
ch’egli aveva umiliato, a un’irremissibile mediocrità. Se si voleva salvare
il buon nome dei principi crociati si doveva per forza far del Saladino un
nemico invincibile (4).
Ma perché invincibile? La prima risposta fu congrua rispetto alla
tradizione secondo la quale l’Islam era una delle pedine del Male sulla
terra. La forza del Saladino stava nei poteri demoniaci che lo sostenevano
o che egli era capace di evocare e controllare. Era il feroce inimicus
crucis, tanto valoroso e temibile in battaglia quanto malvagio. Esiste una
presunta lettera di sfida che l’imperatore Federico I, partendo nel 1188
per la crociata, gli avrebbe inviato: solo il grande sovrano germanico
avrebbe potuto umiliare il tremendo infedele. Ma Federico, scomparso
accidentalmente nei gorghi d’un fiume tra Siria e Cilicia, non giunse a
misurarsi col suo antagonista.
Il miglior cronista occidentale delle crociate del XII secolo, Guglielmo
arcivescovo di Tiro, aveva già cominciato col presentare il Saladino,
superbus et infidelis tyronnus, come un arrivista privo di scrupoli; aveva
poi rincarato la dose Pietro di Blois, celebrando Rinaldo di Chatillon come
un martire, e con ciò obbligando il Saladino a rivestire, in Occidente, i
panni del persecutore secondo la tradizione apologetica; una funzione
ribadita da Gioacchino da Fiore, che lo aveva allineato con i persecutori
Erode e Nerone nella galleria delle prefigure dell’Anticristo. Questi
caratteri negativi furono tutti riassunti nel Carmen de Saladino, poema
redatto tra la presa di Gerusalemme e i primi del Duecento; o nel Saladin,
componimento romanzesco d’incerta data autore del quale è forse Jean
d’Avesnes.
Si andava intanto delineando, però, una diversa tradizione, in origine
ispirata al topos cavalleresco del nemico tanto valoroso quanto magnanimo e
leale: già il romanzo attribuito a Jean d’Avesnes ne recepiva qualche
tratto. Attraverso le cronache si potevano raccogliere molti episodi - per
la verità abbastanza consueti - di “cortesie di guerra” tra crociati e
saraceni. Storie di ostaggi ben trattati, di amicizie strette sul campo di
battaglia, di giochi e tornei tra guerrieri dei differenti schieramenti
nelle pause della guerra: insomma tutto un bagaglio di usi e di
consuetudini attestati fin dall’epica antica e presenti anche nella realtà
degli usi militari, si può dire fino alla comparsa della “guerra totale”
contemporanea (ma, episodicamente, anche al suo stesso interno). Era ad
esempio famoso un fatto accaduto nel 1183, quando il Saladino stava
assediando la formidabile fortezza crociata di Kerak ad est del Mar Morto
(nell’odierna Giordania). Durante l’assedio, si celebrarono nel castello le
nozze tra Unfredo IV di Toron e Isabella di Courtenay; in tale occasione,
la castellana Stefania di Milly fece inviare al sultano alcuni piatti
preparati per il banchetto nuziale: il Saladino gradì il dono, s’informò di
quale fosse la torre del castello nella quale era stata allestita la camera
nuziale e dispose che, per tutta la notte successiva, le catapulte non
avrebbero dovuto colpirla. La lista di queste curialitates sarebbe lunga:
il Saladino si accorge una volta che re Riccardo è rimasto appiedato e gli
invia un cavallo fresco; un’altra, sapendo che egli è indisposto, gli fa
giungere un carico di neve - la si trasportava abitualmente, dal Monte
Hermon, a dorso di cammello - e della frutta. Un poemetto forse dei primi
del Duecento, attribuito a Ugo conte di Tiberiade (ma del quale in realtà
il nobile crociato è non autore ma semmai protagonista) narra perfino di
come il Saladino fosse fatto cavaliere ricevendo secondo le consuetudini
franche quell’adoubement che non era ancora un vero e proprio sacramentale
(lo sarebbe divenuto solo alla fine del Duecento) (5) . Questo particolare
episodio - ripreso dallo stesso Jean d’Avesnes – è parso a molti puro
frutto di fantasia: al contrario, i riti e i costumi della cavalleria
occidentale erano oggetto d’interesse e d’apprezzamento nel XII secolo sia
tra i bizantini sia tra i musulmani, e informazioni circa saraceni “armati
cavalieri” non mancano. La pagina dell’addobbamento del Saladino sarebbe
poi passata, nel Trecento, in un celebre romanzo tosco-umbro, L’avventuroso
ciciliano di Bosone da Gubbio (6).
Parecchie tradizioni sul Saladino cortese e magnanimo cavaliere (7)
avrebbero circolato per le corti d’Europa e sarebbero divenute occasioni di
meditazione etico-parenetica: Dante cita come s’è detto il Saladino nel
Convivio tra i signori liberali e magnanimi; e nella Commedia - dove non
esita a condannare all’inferno lo scismatico Maometto - , assegna al
sultano un posto d’onore tra gli spiriti magni, accanto a Cesare, anche se
un po’ in disparte a significare forse l’eccezionalità del fatto che a un
saraceno spettasse un segno di riguardo del genere, riservato semmai ai
grandi dell’antichità in qualche modo illuminati dal Cristo venturo. Questa
tematica avrebbe raggiunto anche la novellistica: dal Novellino ai Conti di
antichi cavalieri (8) fino al Decameron (9).
Il ruolo del Saladino in Giovanni Boccaccio merita un sia pur breve
discorso a parte. Nel De casibus virorum illustrium, emergono tratti della
tradizione antisaladiniana, che pero ne L’amorosa visione vengono gia
superati, se non altro attraverso ammirazione per le favolose ricchezze del
sultano. Ma è nel Decameron che il Boccaccio prende posizione decisa a
favore dell’immagine positiva del suo eroe.
Nella novella “delle tre anella” (10), che avrebbe particolarmente
impressionato l’Occidente, il Saladino è legato all’immagine di quella
dimensione culturale ed etica che - dopo il Locke e il Voltaire - siamo
abituati a definire “tolleranza” (11). La pagina di Giovanni Boccaccio è
famosa: invitato dal sultano - che in un primo tempo vuole metterlo in
difficoltà - ad esprimersi su quale delle tre religioni abramitiche sia la
migliore, il saggio ebreo Melchisedech risponde narrandogli l’apologo nel
quale il padre di tre figli, possedendo una gemma d’inestimabile valore
dispone in punto di morte che siano foggiati tre identici anelli: in uno
solo di essi è incastonata la pietra preziosa, mentre gli altri hanno
soltanto perfette imitazioni. Ma, dal momento che i tre oggetti sono fra
loro indistinguibili, ciascuno dei tre fratelli dovrà custodire con cura il
suo anello, grato al padre come se fosse certo che la vera gemma è stata
affidata a lui; al tempo stesso dovrà rispettare i legati dei fratelli, in
quanto il vero gioiello potrebbe in realtà esser posseduto da uno di loro.
Conserviamo con cura la nostra fede e rispettiamo l’altrui, è il commento
del saggio: la Verità, infatti, è nota solo al padre. Il Saladino loda
commosso la discrezione dell’ebreo e lo premia riccamente. Questa novella
servì com’è noto al Lessing come base d’ispirazione per il suo Nothan der
Weise, uno dei grandi testi del concetto occidentale di tolleranza. Il tema
ulteriore trattato dal Boccaccio, quello del Saladino-mago, avrebbe gettato
un originale ponte fra la tradizione positiva del sultano cortese e
generoso e quella negativa dell’infedele in combutta con i demoni: ma nella
novella “di messere Torello” la figura del Saladino e quella dell’ospite
affettuoso e del “buono incantatore”, un mago tanto valente nella sua arte
quanto generosamente disposto a impiegarla per un fine cortese (12). È
importante che le due novelle dedicate al Saladino si pongano all’inizio e
alla fine, rispettivamente, dell’iter iniziatico del Decameron, cioè nella
prima e nella decima giornata: dedicate quella al disordine d’una società
sconvolta dal peccato e dall’epidemia che ne è la punizione, questa alla
catarsi che la brigata dei giovani e delle donne riunitisi per sfuggire il
contagio ma anche e soprattutto per recuperare, attraverso il meccanismo
quasi psicoterapeutico della narrazione delle novelle, serenità e ordine.
L’Occidente medievale era naturalmente ancora lontano dai temi di quella
che sarebbe stata più tardi chiamata tolleranza. La novella è percorsa dal
sottinteso, spesso affiorante quando si parlava di principi saraceni buoni
e generosi, che la fede coranica di tali personaggi non potesse perciò
stesso non esser vacillante: cosi, nell’immagine del sultano al-Malik
al-Kamil che aveva trattato affabilmente con Francesco d’Assisi, si era
insinuato il tema del suo desiderio di conversione frenato dalla paura
della reazione dei sudditi musulmani. Lo sviluppo di questo topos avrebbe
condotto, nell’avventuroso ciciliano, addirittura alla narrazione del
battesimo segreto e in punto di morte del sultano. Tali gli antefatti,
propriamente medievali, di un’immagine che sarebbe stata più tardi tradotta
nei termini di un apologo destinato a segnare la modernità.
NOTE
(1) Inferno, IV, 129. Dante richiama il Saladino anche in Convivio, IV, XI,
14, ponendolo tra altri liberali e magnanimi
signori quali Alfonso VIII di Castiglia, Raimondo V di Tolosa, Guglielmo
del Monferrato, Bertram dal Bornio, Galasso di
Montefeltro.
Cfr. F. GABRIELI, Saladino, in Enciclopedia dantesca, IV, pp. 1072 -3.
(3) Nel 1919 l’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios, in un’opera ricca di
erudizione e costruita con grande abilità,
rivendicava all’Islam la paternità dell’immaginario dantesco dell’Aldilà.
La sua tesi, a lungo contrastata (cfr. M. ASIN
PALACIOS, Dante e I’Islam, tr. it., voll. 2, Parma 1994), fu confermata dal
ritrovamento da parte di Enrico Cerulli, nella
Biblioteca Vaticana, di un codice nella Bibliothèque Nationale di Parigi
contenente la versione latina e francese del Liber de
scala (cfr. E. CERULLI, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti
arabo-spagnole della “Divina Commedia”, Città del
Vaticano 1949). Un altro codice, conservato alla Vaticana, oltre al Liber
de scala contiene anche una copia della Collectio
Toletana. Cfr. ora anche Il Libro della Scala di Maometto, tr. it. di R.
Rossi Testa, Intr. di C. Saccone, Milano 1991; Le Livre
de l’échille de Mahomet, tr. it. G. Bessun - M. Brossard- Dandré, Paris
1991. Per collocare il Libro della Scala nel contesto
delle ricerche d’età alfonsina cfr. E. CERULLI, Nuove ricerche sul “Libro
della Scala” e la conoscenza dell’Islam in Occidente,
Città del Vaticano 1972. E’ probabile che l’opera fosse conosciuta comunque
anche nella Sicilia sveva.
(4) In realtà, la critica odierna e relativamente severa nei confronti del
Saladino: o, per lo meno, diciamo che dopo
l’esaltazione medievale, illuministica e romantica (di cui parleremo
infra), anche per il sultano sono giunti i tempi del
disincanto e magari del “revisionismo”. Si è insistito sulla sua mediocrità
come comandante militare e sul tatticismo -
spinto talvolta ai limiti del cinismo - con cui sapeva amministrare,
alternandole, ferocia e magnanimità trattando i nemici
vinti e prigionieri, a seconda delle esigenze propagandistiche. Ricordiamo
comunque, tra le più correnti e recenti biografie
del sultano: A. CHAMPDOR, Saladino, tr. it. Milano 1969; H. GIBB, Vita di
Saladino, Roma 1979; G. REGAN, Il Saladino, tr.
it., Genova 1987; M.C. LYONS - D.E.P. JACKSON, Saladin. The politics of the
holy war, repr. 1995.
(5) Hue de Tabarie, ou Ordene de chevalerie, ed. by R.T. House, Chicago
1919.
(6) Bosone da Gubbio, L’Avventuroso ciciliano, a cura di G.F. Nott, Milano
1823, p. 413 sgg.: un passo in cui sono molto
forti sia la memoria dell’Ordene filtrata magari attraverso autori come il
poeta Folgore da san Gimignano, sia la presenza della tradizione della
visita di Francesco al sultano.
(7) Cfr. R.S. LOOMIS, The Pas Saladin in art and heraldry, in IDEM, Studies
in medieval literature. A memorial collection of
essays, New York 1970; R.F. Coox - L.S. CRIST, Le deuxième siècle de ln
croisade. Les textes en vers. Saladin, Geneve
1972; D. QUERUEL, Le Vailant turc et courtois Saladin: un oriental à la
cour de Bourgogne, “ Senefiance”, 11, 1982, pp.
299-311.
(8) Cfr. Novellino e Conti del Duecento, a cura di S. Lo Nigro, Torino
1968, part. i nn. XXV, pp. 105- 6, LXXIII, pp. 173-74
(questo da un’originale ebraico-spagnolo, passato all’Avventuroso Ciciliano
e al Decameron e da lì servito quale modello
d’ispirazione al Lessing), LXXVI, pp. 178-80, e i primi cinque aneddoti dei
Conti di antichi cavalieri, pp. 301-7.
(9) Cfr. G. PARlS, La leggenda di Saladino, tr. it., Firenze 1896; F.
GABRIELI, Storia e leggenda del Saladino, in Ivi, Storia
e civiltà musulmana, Napoli 1947; J. RICHARD, La chanson de Syracon et la
légende de Saladin, “Journal Asiatique”,
CCXXXVII, 1949, ora in IDEM, Les relations entre l’Occident et l’Orient au
Moyen Age, London 1977; A. CASTRO, Présence
du sultan Saladin dans les littératures romanes, “Diogene”, 1954, 8; P.H.
NEWBY, Saladin in his time, London 1983; G.
LIGATO, Continuità ed eccezioni nella leggenda del Saladino, “Quaderni
medievali”, 36, dic. 1993, pp. 6-29.
(10) Cfr. M. PENNA, La parabola dei tre anelli e la tolleranza nel Medio
Evo, Torino 1953, e la recensione di A. Del Monte,
in “Filologia romanza”, II, 1955, pp. 106-12.
(11) Decameron, I, 3.
(12) Ibidem, X, 9.
Approfittando della mia febbre che perseguita, ieri sera ho fatto una
ricerchina su internet e ho trovato questo .pdf molto carino di Cardini,
ovviamente può divenire uno spunto di dibattito (Guardrail non ridere :-)).
Potete trovare il documento intero su
http://www.enec.it/VersoGerusalemme/19_CARDINI.pdf, ma qui vi ho tagliato
la seconda metà in cui si parla dell'età moderna che sarebbe
inevitabilmente OT. Spero vi piaccia!
Ciao :-)
Davide
FRANCO CARDINI
IMMAGINE E MITO DEL SALADINO IN OCCIDENTE
“E solo, in parte, vidi il Saladino” (1).
Giunto nella zona luminosa del limbo, rischiarata dal fuoco che vince le
tenebre – ma che pur da esse è fasciato - , al “nobile castello” degli
“spiriti magni”, Dante scorge tra i “pagani” privilegiati solo tre
musulmani: il Saladino, appunto, nonché i due grandi maestri delle scienza
e della filosofia del suo e d’ogni tempo, Avicenna e Averroè.
Come tutti i cristiani occidentali colti della sua epoca, l’Alighieri aveva
alcune nozioni su Muhammad (condannato nel XXVIII dell’Inferno tra i
seminatori di scismi) e sull’Islam; ma soprattutto condivideva un diffuso
atteggiamento non privo di qualche schizofrenia. Da una parte, difatti,
l’idea di crociata lo conduceva ad assumere al riguardo una posizione di
netta inimicizia, come si riscontra nella glorificazione, nel cielo di
Marte descritto nel XVIII canto del Paradiso, di colui che ormai dai primi
del XII secolo - grazie al lavoro apologetico di cronisti e di poeti
filolorenesi - si considerava il vero capo della spedizione che nel 1099
aveva condotto alla conquista di Gerusalemme, Goffredo di Buglione duca
della Bassa Lorena. Dall’altra, però, l’esempio stesso di Francesco
d’Assisi che aveva potuto testimoniare il Cristo “nella presenza del soldan
superba” ed era stato ben accolto (ma la lunga storia dei rapporti
islamo-cristiani, prima di allora e in seguito, sono pieni di episodi come
questo), induceva a riflettere sui molti casi nei quali - a cominciare dai
fitti ed abituali rapporti economici e commerciali - i rapporti tra fedeli
del Cristo e fedeli del Corano si erano improntati ad amicizia e a simpatia
reciproca. E, da un’altra ancora, il poeta fiorentino e il suo filosofo per
eccellenza, Tommaso d’Aquino, erano ben consci del debito che nel campo
delle scienze e della filosofia la Cristianità medievale sapeva di
riconoscere al mondo musulmano.
Il debito specifico di Dante, d’altro canto, era ben più forte e profondo
(2). Per individuarlo e circoscriverlo, bisogna rifarsi all’insieme dei
racconti in arabo che si riferiscono a una tradizione riguardante il
Profeta attestata dalla Sura 17 del Corano, la Sura del Viaggio nofturno, e
da una serie di hadith riguardanti il miraj, cioè l’ascensione notturna del
Profeta da Gerusalemme al cielo in sella al cavallo Buraq. L’originale
arabo che coordina questa serie di racconti è andato perduto, ammesso che
sia mai veramente esistito: tuttavia Abraham Alfaquim ne aveva compilato
una riduzione dall’arabo al castigliano della quale verso il 1264
Bonaventura da Siena, domini regis notarius et scriba alla corte di Alfonso
X di Castiglia, aveva ricavato una versione latina e una francese. Presso
quel sovrano, proprio nei medesimi anni, era esule da Firenze il guelfo
Brunetto Latini che, viaggiando in Spagna al tempo della battaglia di
Montaperti del 1260, che aveva segnato l’inizio di un periodo di governo
ghibellino nella sua città, aveva preferito non tornare in patria. Non
sappiamo se nella bisaccia di Brunetto Latini, che sarebbe rientrato a
Firenze di lì a qualche anno, vi fosse una copia del Liber de Scala, o
un’epitome, o degli appunti; non sappiamo per quale via il più illustre
allievo del Latini, Dante Alighieri, sia pervenuto a conoscere il contenuto
di quel testo. Certo è che le analogie tra il Liber e la Divinn Commedia
sono tali e tante che ormai si può con certezza affermare che l’ascensione
del Profeta, ritessuta e rinarrata attraverso una serie di successivi
racconti, sia uno dei fondamenti - il più profondo forse – del più grande
poema del medioevo occidentale (3).
Francesco, nel suo incontro con il sultano che Dante ha richiamato nell’XI
canto del Paradiso, era entrato in contatto con al-Malik al-Kamil,
rappresentante della dinastia ayyubide e nipote quindi d’un personaggio che
già ai tempi dell’Alighieri - ma addirittura fin da quelli dello stesso
Povero d’Assisi - era un paradossale modello cavalleresco. Difatti, se da
una parte la cavalleria cristiana aveva nella crociata e nella guerra
all’infedele il suo momento paradigmatico, dall’altra è singolare - e tanto
più significativo - che l’idealtypus del cavaliere fosse, a partire dal
Duecento, non un cristiano ma un musulmano. Una sottintesa polemica forse
contro le scarse virtù dei cristiani, che su un terreno che avrebbe dovuto
essere per eccellenza loro si vedevano invece costretti a prendere lezioni
da un infedele. E magari una loro astuzia: dal momento che quel personaggio
aveva più volte battuto - in battaglia e in magnanimità - i guerrieri della
croce, era necessario dimostrarne l’assoluta eccezionalità. Il fiore della
cavalleria cristiana non poteva certo essere stato sconfitto da un pagano
qualsiasi. Ma chi era, insomma, quel pagano scandalo e modello per i
cristiani?
Yusuf ibn Ayyub, il cui laqab e Salah ad-Din, “la santità della religione”,
il sultano curdo che aveva eliminato il califfato sciita del Cairo,
ristabilita l’osservanza sunnita in tutto il Vicino Oriente, assoggettati
Egitto e Siria e nel 1187 riconquistato all’Islam Gerusalemme, si guadagnò
in tutto l’Occidente una straordinaria fama. Ciò si deve in parte anche al
fatto che in un modo o nell’altro egli sconfisse i più illustri sovrani
d’Occidente, come Riccardo Cuor di Leone. Era a quel punto impossibile non
creare attorno alla sua figura una fama d’invincibilità quasi sovrumana: il
contrario avrebbe equivalso a condannare i capi della terza crociata,
ch’egli aveva umiliato, a un’irremissibile mediocrità. Se si voleva salvare
il buon nome dei principi crociati si doveva per forza far del Saladino un
nemico invincibile (4).
Ma perché invincibile? La prima risposta fu congrua rispetto alla
tradizione secondo la quale l’Islam era una delle pedine del Male sulla
terra. La forza del Saladino stava nei poteri demoniaci che lo sostenevano
o che egli era capace di evocare e controllare. Era il feroce inimicus
crucis, tanto valoroso e temibile in battaglia quanto malvagio. Esiste una
presunta lettera di sfida che l’imperatore Federico I, partendo nel 1188
per la crociata, gli avrebbe inviato: solo il grande sovrano germanico
avrebbe potuto umiliare il tremendo infedele. Ma Federico, scomparso
accidentalmente nei gorghi d’un fiume tra Siria e Cilicia, non giunse a
misurarsi col suo antagonista.
Il miglior cronista occidentale delle crociate del XII secolo, Guglielmo
arcivescovo di Tiro, aveva già cominciato col presentare il Saladino,
superbus et infidelis tyronnus, come un arrivista privo di scrupoli; aveva
poi rincarato la dose Pietro di Blois, celebrando Rinaldo di Chatillon come
un martire, e con ciò obbligando il Saladino a rivestire, in Occidente, i
panni del persecutore secondo la tradizione apologetica; una funzione
ribadita da Gioacchino da Fiore, che lo aveva allineato con i persecutori
Erode e Nerone nella galleria delle prefigure dell’Anticristo. Questi
caratteri negativi furono tutti riassunti nel Carmen de Saladino, poema
redatto tra la presa di Gerusalemme e i primi del Duecento; o nel Saladin,
componimento romanzesco d’incerta data autore del quale è forse Jean
d’Avesnes.
Si andava intanto delineando, però, una diversa tradizione, in origine
ispirata al topos cavalleresco del nemico tanto valoroso quanto magnanimo e
leale: già il romanzo attribuito a Jean d’Avesnes ne recepiva qualche
tratto. Attraverso le cronache si potevano raccogliere molti episodi - per
la verità abbastanza consueti - di “cortesie di guerra” tra crociati e
saraceni. Storie di ostaggi ben trattati, di amicizie strette sul campo di
battaglia, di giochi e tornei tra guerrieri dei differenti schieramenti
nelle pause della guerra: insomma tutto un bagaglio di usi e di
consuetudini attestati fin dall’epica antica e presenti anche nella realtà
degli usi militari, si può dire fino alla comparsa della “guerra totale”
contemporanea (ma, episodicamente, anche al suo stesso interno). Era ad
esempio famoso un fatto accaduto nel 1183, quando il Saladino stava
assediando la formidabile fortezza crociata di Kerak ad est del Mar Morto
(nell’odierna Giordania). Durante l’assedio, si celebrarono nel castello le
nozze tra Unfredo IV di Toron e Isabella di Courtenay; in tale occasione,
la castellana Stefania di Milly fece inviare al sultano alcuni piatti
preparati per il banchetto nuziale: il Saladino gradì il dono, s’informò di
quale fosse la torre del castello nella quale era stata allestita la camera
nuziale e dispose che, per tutta la notte successiva, le catapulte non
avrebbero dovuto colpirla. La lista di queste curialitates sarebbe lunga:
il Saladino si accorge una volta che re Riccardo è rimasto appiedato e gli
invia un cavallo fresco; un’altra, sapendo che egli è indisposto, gli fa
giungere un carico di neve - la si trasportava abitualmente, dal Monte
Hermon, a dorso di cammello - e della frutta. Un poemetto forse dei primi
del Duecento, attribuito a Ugo conte di Tiberiade (ma del quale in realtà
il nobile crociato è non autore ma semmai protagonista) narra perfino di
come il Saladino fosse fatto cavaliere ricevendo secondo le consuetudini
franche quell’adoubement che non era ancora un vero e proprio sacramentale
(lo sarebbe divenuto solo alla fine del Duecento) (5) . Questo particolare
episodio - ripreso dallo stesso Jean d’Avesnes – è parso a molti puro
frutto di fantasia: al contrario, i riti e i costumi della cavalleria
occidentale erano oggetto d’interesse e d’apprezzamento nel XII secolo sia
tra i bizantini sia tra i musulmani, e informazioni circa saraceni “armati
cavalieri” non mancano. La pagina dell’addobbamento del Saladino sarebbe
poi passata, nel Trecento, in un celebre romanzo tosco-umbro, L’avventuroso
ciciliano di Bosone da Gubbio (6).
Parecchie tradizioni sul Saladino cortese e magnanimo cavaliere (7)
avrebbero circolato per le corti d’Europa e sarebbero divenute occasioni di
meditazione etico-parenetica: Dante cita come s’è detto il Saladino nel
Convivio tra i signori liberali e magnanimi; e nella Commedia - dove non
esita a condannare all’inferno lo scismatico Maometto - , assegna al
sultano un posto d’onore tra gli spiriti magni, accanto a Cesare, anche se
un po’ in disparte a significare forse l’eccezionalità del fatto che a un
saraceno spettasse un segno di riguardo del genere, riservato semmai ai
grandi dell’antichità in qualche modo illuminati dal Cristo venturo. Questa
tematica avrebbe raggiunto anche la novellistica: dal Novellino ai Conti di
antichi cavalieri (8) fino al Decameron (9).
Il ruolo del Saladino in Giovanni Boccaccio merita un sia pur breve
discorso a parte. Nel De casibus virorum illustrium, emergono tratti della
tradizione antisaladiniana, che pero ne L’amorosa visione vengono gia
superati, se non altro attraverso ammirazione per le favolose ricchezze del
sultano. Ma è nel Decameron che il Boccaccio prende posizione decisa a
favore dell’immagine positiva del suo eroe.
Nella novella “delle tre anella” (10), che avrebbe particolarmente
impressionato l’Occidente, il Saladino è legato all’immagine di quella
dimensione culturale ed etica che - dopo il Locke e il Voltaire - siamo
abituati a definire “tolleranza” (11). La pagina di Giovanni Boccaccio è
famosa: invitato dal sultano - che in un primo tempo vuole metterlo in
difficoltà - ad esprimersi su quale delle tre religioni abramitiche sia la
migliore, il saggio ebreo Melchisedech risponde narrandogli l’apologo nel
quale il padre di tre figli, possedendo una gemma d’inestimabile valore
dispone in punto di morte che siano foggiati tre identici anelli: in uno
solo di essi è incastonata la pietra preziosa, mentre gli altri hanno
soltanto perfette imitazioni. Ma, dal momento che i tre oggetti sono fra
loro indistinguibili, ciascuno dei tre fratelli dovrà custodire con cura il
suo anello, grato al padre come se fosse certo che la vera gemma è stata
affidata a lui; al tempo stesso dovrà rispettare i legati dei fratelli, in
quanto il vero gioiello potrebbe in realtà esser posseduto da uno di loro.
Conserviamo con cura la nostra fede e rispettiamo l’altrui, è il commento
del saggio: la Verità, infatti, è nota solo al padre. Il Saladino loda
commosso la discrezione dell’ebreo e lo premia riccamente. Questa novella
servì com’è noto al Lessing come base d’ispirazione per il suo Nothan der
Weise, uno dei grandi testi del concetto occidentale di tolleranza. Il tema
ulteriore trattato dal Boccaccio, quello del Saladino-mago, avrebbe gettato
un originale ponte fra la tradizione positiva del sultano cortese e
generoso e quella negativa dell’infedele in combutta con i demoni: ma nella
novella “di messere Torello” la figura del Saladino e quella dell’ospite
affettuoso e del “buono incantatore”, un mago tanto valente nella sua arte
quanto generosamente disposto a impiegarla per un fine cortese (12). È
importante che le due novelle dedicate al Saladino si pongano all’inizio e
alla fine, rispettivamente, dell’iter iniziatico del Decameron, cioè nella
prima e nella decima giornata: dedicate quella al disordine d’una società
sconvolta dal peccato e dall’epidemia che ne è la punizione, questa alla
catarsi che la brigata dei giovani e delle donne riunitisi per sfuggire il
contagio ma anche e soprattutto per recuperare, attraverso il meccanismo
quasi psicoterapeutico della narrazione delle novelle, serenità e ordine.
L’Occidente medievale era naturalmente ancora lontano dai temi di quella
che sarebbe stata più tardi chiamata tolleranza. La novella è percorsa dal
sottinteso, spesso affiorante quando si parlava di principi saraceni buoni
e generosi, che la fede coranica di tali personaggi non potesse perciò
stesso non esser vacillante: cosi, nell’immagine del sultano al-Malik
al-Kamil che aveva trattato affabilmente con Francesco d’Assisi, si era
insinuato il tema del suo desiderio di conversione frenato dalla paura
della reazione dei sudditi musulmani. Lo sviluppo di questo topos avrebbe
condotto, nell’avventuroso ciciliano, addirittura alla narrazione del
battesimo segreto e in punto di morte del sultano. Tali gli antefatti,
propriamente medievali, di un’immagine che sarebbe stata più tardi tradotta
nei termini di un apologo destinato a segnare la modernità.
NOTE
(1) Inferno, IV, 129. Dante richiama il Saladino anche in Convivio, IV, XI,
14, ponendolo tra altri liberali e magnanimi
signori quali Alfonso VIII di Castiglia, Raimondo V di Tolosa, Guglielmo
del Monferrato, Bertram dal Bornio, Galasso di
Montefeltro.
Cfr. F. GABRIELI, Saladino, in Enciclopedia dantesca, IV, pp. 1072 -3.
(3) Nel 1919 l’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios, in un’opera ricca di
erudizione e costruita con grande abilità,
rivendicava all’Islam la paternità dell’immaginario dantesco dell’Aldilà.
La sua tesi, a lungo contrastata (cfr. M. ASIN
PALACIOS, Dante e I’Islam, tr. it., voll. 2, Parma 1994), fu confermata dal
ritrovamento da parte di Enrico Cerulli, nella
Biblioteca Vaticana, di un codice nella Bibliothèque Nationale di Parigi
contenente la versione latina e francese del Liber de
scala (cfr. E. CERULLI, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti
arabo-spagnole della “Divina Commedia”, Città del
Vaticano 1949). Un altro codice, conservato alla Vaticana, oltre al Liber
de scala contiene anche una copia della Collectio
Toletana. Cfr. ora anche Il Libro della Scala di Maometto, tr. it. di R.
Rossi Testa, Intr. di C. Saccone, Milano 1991; Le Livre
de l’échille de Mahomet, tr. it. G. Bessun - M. Brossard- Dandré, Paris
1991. Per collocare il Libro della Scala nel contesto
delle ricerche d’età alfonsina cfr. E. CERULLI, Nuove ricerche sul “Libro
della Scala” e la conoscenza dell’Islam in Occidente,
Città del Vaticano 1972. E’ probabile che l’opera fosse conosciuta comunque
anche nella Sicilia sveva.
(4) In realtà, la critica odierna e relativamente severa nei confronti del
Saladino: o, per lo meno, diciamo che dopo
l’esaltazione medievale, illuministica e romantica (di cui parleremo
infra), anche per il sultano sono giunti i tempi del
disincanto e magari del “revisionismo”. Si è insistito sulla sua mediocrità
come comandante militare e sul tatticismo -
spinto talvolta ai limiti del cinismo - con cui sapeva amministrare,
alternandole, ferocia e magnanimità trattando i nemici
vinti e prigionieri, a seconda delle esigenze propagandistiche. Ricordiamo
comunque, tra le più correnti e recenti biografie
del sultano: A. CHAMPDOR, Saladino, tr. it. Milano 1969; H. GIBB, Vita di
Saladino, Roma 1979; G. REGAN, Il Saladino, tr.
it., Genova 1987; M.C. LYONS - D.E.P. JACKSON, Saladin. The politics of the
holy war, repr. 1995.
(5) Hue de Tabarie, ou Ordene de chevalerie, ed. by R.T. House, Chicago
1919.
(6) Bosone da Gubbio, L’Avventuroso ciciliano, a cura di G.F. Nott, Milano
1823, p. 413 sgg.: un passo in cui sono molto
forti sia la memoria dell’Ordene filtrata magari attraverso autori come il
poeta Folgore da san Gimignano, sia la presenza della tradizione della
visita di Francesco al sultano.
(7) Cfr. R.S. LOOMIS, The Pas Saladin in art and heraldry, in IDEM, Studies
in medieval literature. A memorial collection of
essays, New York 1970; R.F. Coox - L.S. CRIST, Le deuxième siècle de ln
croisade. Les textes en vers. Saladin, Geneve
1972; D. QUERUEL, Le Vailant turc et courtois Saladin: un oriental à la
cour de Bourgogne, “ Senefiance”, 11, 1982, pp.
299-311.
(8) Cfr. Novellino e Conti del Duecento, a cura di S. Lo Nigro, Torino
1968, part. i nn. XXV, pp. 105- 6, LXXIII, pp. 173-74
(questo da un’originale ebraico-spagnolo, passato all’Avventuroso Ciciliano
e al Decameron e da lì servito quale modello
d’ispirazione al Lessing), LXXVI, pp. 178-80, e i primi cinque aneddoti dei
Conti di antichi cavalieri, pp. 301-7.
(9) Cfr. G. PARlS, La leggenda di Saladino, tr. it., Firenze 1896; F.
GABRIELI, Storia e leggenda del Saladino, in Ivi, Storia
e civiltà musulmana, Napoli 1947; J. RICHARD, La chanson de Syracon et la
légende de Saladin, “Journal Asiatique”,
CCXXXVII, 1949, ora in IDEM, Les relations entre l’Occident et l’Orient au
Moyen Age, London 1977; A. CASTRO, Présence
du sultan Saladin dans les littératures romanes, “Diogene”, 1954, 8; P.H.
NEWBY, Saladin in his time, London 1983; G.
LIGATO, Continuità ed eccezioni nella leggenda del Saladino, “Quaderni
medievali”, 36, dic. 1993, pp. 6-29.
(10) Cfr. M. PENNA, La parabola dei tre anelli e la tolleranza nel Medio
Evo, Torino 1953, e la recensione di A. Del Monte,
in “Filologia romanza”, II, 1955, pp. 106-12.
(11) Decameron, I, 3.
(12) Ibidem, X, 9.