guardrail
2004-04-06 10:57:37 UTC
L'O di Giotto
Questo signore veniva di campagna, dalle belle colline, dai
boschi e torrentelli, dalle case di un paese poco distante da Firenze
di nome Vicchio, in una zona chiamata Mugello. Da una di quelle
case di contadini che sembrano fatte di cubi, di parallelepipedi, di
prismi e piramidi, come nei disegni di geometria, e come lui stesso,
il pittore, li dipingerà nelle sue celebri "storie". Figlio di un certo
Bondone, si chiama Angioletto, o più familiarmente Giotto. Era
un ragazzetto senza baffi ne barba quando venne a imparare a
dipingere nella città, dove il padre ormai lavorava; e nessuno pen
sava che entro breve tempo, pochissimi anni, sarebbe diventato il
più grande pittore di tutti i tempi, quello che riprenderà dagli
antichi, dai Greci e i Romani, il segreto di come son fatte le cose, e
di renderle con il pennello con la più grande semplicità, la più
grande chiarezza possibile. Si era nella seconda metà del Milledue
cento, lo stesso tempo nel quale un grande coetaneo e forse anche
amico, il poeta Dante, cominciava a comporre poesie.
Prima di lui, forse perché i tempi erano duri e si aveva paura di
tutto, anche della realtà, forse perché era triste e cattiva, chi voleva
dipingere una pianta la ricopiava da un grande libro, dove le
piante erano disegnate; chi voleva fare un animale guardava un
libro sugli animali. E chi voleva disegnare un uomo, non lo guar
dava direttamente, ma lo faceva e coloriva a memoria, rendendo
di lui più l'idea, l'impressione, quasi il fantasma, piuttosto che
l'uomo vero, col suo volume. Così piante, animali, uomini, erano
sempre cose pensate, molto lontane dalla realtà. Giotto cambiò
tutto questo. Come facevano gli antichi, Greci e Romani, per fare
una pecora guardava una pecora viva, dal vero, mentre era al
pascolo. Per fare un albero guardava un albero; per fare un uomo
lo osservava nei gesti e nelle espressioni, direttamente, per cogliere
il segreto di quel gesto e di quell'espressione; e rendere tutte le sfu
mature che solo la realtà, così varia, possiede. Capì che bastava di
questo mondo anche un pezzo, anche un solo frammento, per
avere le qualità, le caratteristiche di tutto l'intero. Sceglieva un
sasso, un frammento di roccia; ed era una montagna. Portava, a
modello, un ramo di albero, una frasca; e sembrava un albero
intero. Come i bambini fanno col presepio, quando ricostruiscono
sul piano di un tavolino, un piccolo mondo, a loro dimensione, che
ripete quello più vero e più grande; o come fanno al mare con i
castelli di sabbia, quando il fumo che esce da un cono di sabbia
bagnata, è quello di un vulcano e un ramoscello di oleandro, pian
tato per terra, è un albero fiorito.
Il grande Giotto fece tutto questo; e in più, guardando le cose dal
vero, notava che quelle vicine erano grandi e quelle lontane più
piccole; tradusse questo nella pittura, disegnando non solo le case,
gli uomini e gli animali, ma rispettando anche gli spazi che esi
stono fra queste cose, e le fanno piccine o grandi secondo la loro
distanza.
In pochi anni diventò bravissimo, e fu conosciuto al di fuori di
Firenze, anzi al di fuori della Toscana. E tutti guardavano incantati
le scene affrescate sulle pareti delle grandi chiese dove le persone,
le case, gli ammali, erano come scolpiti; sembrava quasi di toccarli.
Le sue pitture fatte ad Assisi, a Roma, a Rimini, a Napoli, diven
nero presto notissime. I più grandi signori del tempo, i ricchi mer
canti, i Principi e i Re, lo chiamarono a dipingere nelle cappelle,
dentro alle chiese e nei palazzi loro. Finché arrivò alla fama, alla
gloria finale, quando anche i Fiorentini, finalmente convinti del
suo gran genio, chiesero a Giotto non solo di dipingere, ma anche
di costruire, come architetto; e gli ordinarono il progetto del Cam
panile, qui a Firenze, che da lui prende il nome.
Ma la storia che mi interessa riguarda un tempo della sua vita
quando la sua fama non era già sviluppata, o almeno non tanto
grande come sarà negli anni della maturità. Avvenne allora un
fatto molto singolare che le cronache del tempo ci hanno traman
dato e che merita qui ricordare. Si trattava questa volta del Papa,
il più importante e il più autorevole, il più potente personaggio
che ci fosse in Europa in quel tempo; alla pari, anzi al di sopra di
qualsiasi Re (scommetto che Piero F. avrà ancora da ridire).
Il Papa bandiva una specie di concorso, stabiliva una
specie di gara fra tutti gli artisti viventi, tra i più importanti di quel
momento, per sceglierne uno, il migliore, al quale affidare tutta
una serie di pitture dentro al Vaticano. Si trattava di Roma, la città
che nei tempi passati aveva insegnato cultura a tutto il mondo del
Mediterraneo e di Europa; Roma voleva rinascere a nuova vita e
dimostrare che, insieme alla potenza, anche l'arte si rinnovava.
Si presentarono al messo del Papa tutti gli artisti più noti del
tempo; dovendo mandare una prova del loro lavoro, del loro stile,
consegnarono fogli e pergamene con schizzi, bozzetti, disegni vari,
dove avevano messo il meglio delle loro possibilità; chi un gruppo
di figure, chi un animale, chi un ritratto. E il messaggero del Papa
metteva da parte, raccoglieva le prove, una ad una, come fa la
maestra quando raccoglie i compiti in classe.
Si presentò tra gli altri, tra quelli più grandi e più noti, anche
Giotto, che invece era giovane e non aveva ancora acquistato
grandissima fama. Il messo gli chiese che cosa aveva da conse
gnare, qual'era il dipinto già fatto per dimostrare al Papa le sue
qualità, la sua bravura. E Giotto, di fronte a tutti, su di un foglio di
pergamena (la carta, a quel tempo, era più rara e non si usava per
queste cose), con un pennello appena intinto nel colore, segnò una
grande O, tutta in una volta, senza staccare il pennello dalla perga
mena. Tracciò un'O perfetta, tonda tonda, che sembrava fatta con
il compasso. Il messo si stupì alquanto, trovando la cosa un po'
strana, ma Giotto, con fare sicuro e deciso, commentò: "Portate
questo a sua Santità, e riferite che questo sa fare il pittore Giotto di
Firenze; e tanto basta". Nella sala ci fu un gran brusio, un com
mento di meraviglia e di critica fra tutti gli artisti presenti.
Il messo andò dal Papa, mostrò il disegno e riportò il commento di
quelle parole. Il Papa capì e chiamò lui, proprio lui, fra tutti i pittori
del tempo suo, per quei lavori importanti da farsi in Vaticano.
In conclusione.
Aveva capito cos'è che Giotto voleva dire, e che significato aveva il
suo gesto. Il cerchio perfetto, fatto così, a mano libera, voleva dire,
prima di tutto, sicurezza di mano e pratica certa della geometria,
vale a dire una forte preparazione scientifica, indispensabile per un
modo nuovo, coraggioso, di trattare l'arte. Voleva anche dire che
basta un dettaglio, purché sia perfetto e significativo, per dare
l'idea di tutto un insieme. E voleva anche rispondere con una spe
cie di "lezione" all' "esame" voluto dal Papa; voleva dire probabil
mente che non si può giudicare un artista, facendogli fare un "com
pito" insieme agli altri, in una gara qualsiasi. Era la sdegnosa,
dignitosa risposta di un genio, che chiedeva solo di essere messo
alla prova, lasciando vedere di sé appena una scintilla, che fosse
l'esempio della sua "classe", della sua qualità. Il Papa era grande,
era saggio, e capì che quell'O era la prova per dimostrare che
Giotto era grande anche lui. Giotto sapeva, da uomo saggio, che la
cosa più diffìcile al mondo è fare bene le cose facili, o quelle che
sembrano facili; fare perfettamente anche un dettaglio, il più ano
nimo, il più semplice, come una O.
Guardrail
"Il prof. Horst Enzensberger dell'Università di Bamberg
si diverte solo con free.it.storia.medioevo"
Questo signore veniva di campagna, dalle belle colline, dai
boschi e torrentelli, dalle case di un paese poco distante da Firenze
di nome Vicchio, in una zona chiamata Mugello. Da una di quelle
case di contadini che sembrano fatte di cubi, di parallelepipedi, di
prismi e piramidi, come nei disegni di geometria, e come lui stesso,
il pittore, li dipingerà nelle sue celebri "storie". Figlio di un certo
Bondone, si chiama Angioletto, o più familiarmente Giotto. Era
un ragazzetto senza baffi ne barba quando venne a imparare a
dipingere nella città, dove il padre ormai lavorava; e nessuno pen
sava che entro breve tempo, pochissimi anni, sarebbe diventato il
più grande pittore di tutti i tempi, quello che riprenderà dagli
antichi, dai Greci e i Romani, il segreto di come son fatte le cose, e
di renderle con il pennello con la più grande semplicità, la più
grande chiarezza possibile. Si era nella seconda metà del Milledue
cento, lo stesso tempo nel quale un grande coetaneo e forse anche
amico, il poeta Dante, cominciava a comporre poesie.
Prima di lui, forse perché i tempi erano duri e si aveva paura di
tutto, anche della realtà, forse perché era triste e cattiva, chi voleva
dipingere una pianta la ricopiava da un grande libro, dove le
piante erano disegnate; chi voleva fare un animale guardava un
libro sugli animali. E chi voleva disegnare un uomo, non lo guar
dava direttamente, ma lo faceva e coloriva a memoria, rendendo
di lui più l'idea, l'impressione, quasi il fantasma, piuttosto che
l'uomo vero, col suo volume. Così piante, animali, uomini, erano
sempre cose pensate, molto lontane dalla realtà. Giotto cambiò
tutto questo. Come facevano gli antichi, Greci e Romani, per fare
una pecora guardava una pecora viva, dal vero, mentre era al
pascolo. Per fare un albero guardava un albero; per fare un uomo
lo osservava nei gesti e nelle espressioni, direttamente, per cogliere
il segreto di quel gesto e di quell'espressione; e rendere tutte le sfu
mature che solo la realtà, così varia, possiede. Capì che bastava di
questo mondo anche un pezzo, anche un solo frammento, per
avere le qualità, le caratteristiche di tutto l'intero. Sceglieva un
sasso, un frammento di roccia; ed era una montagna. Portava, a
modello, un ramo di albero, una frasca; e sembrava un albero
intero. Come i bambini fanno col presepio, quando ricostruiscono
sul piano di un tavolino, un piccolo mondo, a loro dimensione, che
ripete quello più vero e più grande; o come fanno al mare con i
castelli di sabbia, quando il fumo che esce da un cono di sabbia
bagnata, è quello di un vulcano e un ramoscello di oleandro, pian
tato per terra, è un albero fiorito.
Il grande Giotto fece tutto questo; e in più, guardando le cose dal
vero, notava che quelle vicine erano grandi e quelle lontane più
piccole; tradusse questo nella pittura, disegnando non solo le case,
gli uomini e gli animali, ma rispettando anche gli spazi che esi
stono fra queste cose, e le fanno piccine o grandi secondo la loro
distanza.
In pochi anni diventò bravissimo, e fu conosciuto al di fuori di
Firenze, anzi al di fuori della Toscana. E tutti guardavano incantati
le scene affrescate sulle pareti delle grandi chiese dove le persone,
le case, gli ammali, erano come scolpiti; sembrava quasi di toccarli.
Le sue pitture fatte ad Assisi, a Roma, a Rimini, a Napoli, diven
nero presto notissime. I più grandi signori del tempo, i ricchi mer
canti, i Principi e i Re, lo chiamarono a dipingere nelle cappelle,
dentro alle chiese e nei palazzi loro. Finché arrivò alla fama, alla
gloria finale, quando anche i Fiorentini, finalmente convinti del
suo gran genio, chiesero a Giotto non solo di dipingere, ma anche
di costruire, come architetto; e gli ordinarono il progetto del Cam
panile, qui a Firenze, che da lui prende il nome.
Ma la storia che mi interessa riguarda un tempo della sua vita
quando la sua fama non era già sviluppata, o almeno non tanto
grande come sarà negli anni della maturità. Avvenne allora un
fatto molto singolare che le cronache del tempo ci hanno traman
dato e che merita qui ricordare. Si trattava questa volta del Papa,
il più importante e il più autorevole, il più potente personaggio
che ci fosse in Europa in quel tempo; alla pari, anzi al di sopra di
qualsiasi Re (scommetto che Piero F. avrà ancora da ridire).
Il Papa bandiva una specie di concorso, stabiliva una
specie di gara fra tutti gli artisti viventi, tra i più importanti di quel
momento, per sceglierne uno, il migliore, al quale affidare tutta
una serie di pitture dentro al Vaticano. Si trattava di Roma, la città
che nei tempi passati aveva insegnato cultura a tutto il mondo del
Mediterraneo e di Europa; Roma voleva rinascere a nuova vita e
dimostrare che, insieme alla potenza, anche l'arte si rinnovava.
Si presentarono al messo del Papa tutti gli artisti più noti del
tempo; dovendo mandare una prova del loro lavoro, del loro stile,
consegnarono fogli e pergamene con schizzi, bozzetti, disegni vari,
dove avevano messo il meglio delle loro possibilità; chi un gruppo
di figure, chi un animale, chi un ritratto. E il messaggero del Papa
metteva da parte, raccoglieva le prove, una ad una, come fa la
maestra quando raccoglie i compiti in classe.
Si presentò tra gli altri, tra quelli più grandi e più noti, anche
Giotto, che invece era giovane e non aveva ancora acquistato
grandissima fama. Il messo gli chiese che cosa aveva da conse
gnare, qual'era il dipinto già fatto per dimostrare al Papa le sue
qualità, la sua bravura. E Giotto, di fronte a tutti, su di un foglio di
pergamena (la carta, a quel tempo, era più rara e non si usava per
queste cose), con un pennello appena intinto nel colore, segnò una
grande O, tutta in una volta, senza staccare il pennello dalla perga
mena. Tracciò un'O perfetta, tonda tonda, che sembrava fatta con
il compasso. Il messo si stupì alquanto, trovando la cosa un po'
strana, ma Giotto, con fare sicuro e deciso, commentò: "Portate
questo a sua Santità, e riferite che questo sa fare il pittore Giotto di
Firenze; e tanto basta". Nella sala ci fu un gran brusio, un com
mento di meraviglia e di critica fra tutti gli artisti presenti.
Il messo andò dal Papa, mostrò il disegno e riportò il commento di
quelle parole. Il Papa capì e chiamò lui, proprio lui, fra tutti i pittori
del tempo suo, per quei lavori importanti da farsi in Vaticano.
In conclusione.
Aveva capito cos'è che Giotto voleva dire, e che significato aveva il
suo gesto. Il cerchio perfetto, fatto così, a mano libera, voleva dire,
prima di tutto, sicurezza di mano e pratica certa della geometria,
vale a dire una forte preparazione scientifica, indispensabile per un
modo nuovo, coraggioso, di trattare l'arte. Voleva anche dire che
basta un dettaglio, purché sia perfetto e significativo, per dare
l'idea di tutto un insieme. E voleva anche rispondere con una spe
cie di "lezione" all' "esame" voluto dal Papa; voleva dire probabil
mente che non si può giudicare un artista, facendogli fare un "com
pito" insieme agli altri, in una gara qualsiasi. Era la sdegnosa,
dignitosa risposta di un genio, che chiedeva solo di essere messo
alla prova, lasciando vedere di sé appena una scintilla, che fosse
l'esempio della sua "classe", della sua qualità. Il Papa era grande,
era saggio, e capì che quell'O era la prova per dimostrare che
Giotto era grande anche lui. Giotto sapeva, da uomo saggio, che la
cosa più diffìcile al mondo è fare bene le cose facili, o quelle che
sembrano facili; fare perfettamente anche un dettaglio, il più ano
nimo, il più semplice, come una O.
Guardrail
"Il prof. Horst Enzensberger dell'Università di Bamberg
si diverte solo con free.it.storia.medioevo"